Rivesaltes si trova nei Pirenei orientali, in un angolo di terra tra il mare e le montagne, sempre battuto dal vento. È già Francia, ma a pochi passi dalla Catalogna. In questa regione, nel febbraio del 1939, si riversarono migliaia di spagnoli in fuga – la cosiddetta Retirada – dalla vittoria franchista. I francesi non erano pronti a questa evenienza – o non vollero esserlo – e i rifugiati spagnoli, dopo aver attraversato a piedi i Pirenei nella neve, furono convogliati in campi improvvisati, spesso senza baraccamenti né tanto meno servizi igienici, in condizioni in cui la fame e la dissenteria fecero moltissime vittime tra il febbraio e il luglio, soprattutto tra i bambini.
Intanto, furono attrezzati alcuni campi presso aree militari: i più noti sono Barcarès, Bram e successivamente il camp Joffre di Rivesaltes.
Alcuni fotografi ottennero il permesso di accedervi e raccogliere immagini della vita al loro interno: tra di loro, Robert Capa, che aveva già seguito le vicende della guerra civile. La maggior parte dei suoi scatti, tuttavia, andò perduta; solo nel 2008 è stata ritrovata la cosiddetta “valigia messicana”, tre scatole contenenti 4.500 scatti di Capa, Gerda Taro e Chim, scomparsi all'incirca nel 1940 e rinvenuti – per vie ancora misteriose – in Messico. In un saggio nel volume La valise mexicaine (Actes Sud, 2011), Marie Hélène Melendez racconta del reportage di Capa all'interno di alcuni campi per i rifugiati spagnoli, della dura vita sotto ripari fatti con rami e stracci, delle cucine ottenute scavando buche nella terra per proteggere il fuoco dal vento. Queste, in una delle rare riviste che pubblicarono le immagini di Capa all'epoca, vengono definite dai responsabili dell'ufficio di igiene come condizioni quasi da popolazioni “preistoriche”.
Ma la storia del campo di Rivesaltes non si ferma qui: subito dopo i rifugiati spagnoli – e contemporaneamente – il campo “accolse” anche gli ebrei stranieri che affollavano la Francia dopo l'ascesa del nazismo, insieme agli zingari: la denominazione diviene centre d’hébergement, di “alloggiamento” per famiglie, ma in cui le famiglie erano divise, donne e bambini in alcune baracche, gli uomini in altre. Siamo subito dopo il 1940, quando Rivesaltes non si trova nella Francia occupata, ma nella cosiddetta zone libre amministrata dal governo di Vichy. Nel 1942 si ha un nuovo cambiamento – la zone libre diviene zone Sud, occupata da tedeschi e italiani– e il campo, gestito dai nazisti, diviene centre national de rassemblement, ovvero di “raccolta” degli ebrei stranieri che vengono da qui inviati a Drancy, nella zona Nord, e poi verso i campi di sterminio, a Est.
Negli ultimi mesi del 1944 i tedeschi lasciano Rivesaltes e il campo diventa un centre de séjour surveillé, un centro per il controllo di stranieri che passavano le frontiere clandestinamente, come ancora gli spagnoli, ma anche i rifugiati sovietici o belgi. Solo alla fine del 1945 tale funzione cesserà, quando sarà necessario utilizzare il campo per la detenzione di una nuova categoria di prigionieri: i soldati tedeschi e, in numero minore, italiani, che vengono destinati ai lavori di ricostruzione della regione e tenuti in condizioni molto dure (tra il 1945 e 1948 moriranno circa 500 prigionieri tedeschi).
Per un decennio Rivesaltes diviene centre de formation professionnelle accélérée e sarà rivolto in particolare a nordafricani, fatto che alimenta tensioni razziali nell'area. Poi, nella primavera del 1962, diviene centre pénitentiaire per i partigiani algerini della guerra scoppiata nel 1957. Nell'ottobre dello stesso anno, dopo gli accordi di Evian che pongono fine al conflitto, vengono fatti stabilire a Rivesaltes circa 8.000 Harkis, ovvero i soldati delle truppe algerine fedeli alla Francia, “rimpatriati” (la denominazione ufficiale è FMR, Français musulmans rapatriés) nell'ex madrepatria insieme alle loro famiglie: circa 20.000 persone transitarono dal campo tra il 1962 e il 1964. A partire dalla metà degli anni Ottanta, il campo diviene centre de rétention administrative per i sans papier, funzione che assolverà fino al 2007.
Una storia lunga, quella di questo campo, che non può non colpire: tra i primi, alcuni artisti hanno colto la complessità del fenomeno, anzi, della sovrapposizione di fenomeni, convinti che la non-causalità della concatenazione di destinazioni non possa tuttavia portare all'isolamento di un unico livello della stratigrafia. Così Nicole Bergé, che, partendo da una ricognizione aerea del campo di Rivesaltes, scende a indagarne la terra palmo a palmo, raccogliendone le tracce, dopo alcuni anni di abbandono in cui il vento e l'aria salmastra si sono mangiati le strutture rimaste in piedi. Frammenti di quotidiano, di bottiglie, stoviglie, posate e lucchetti, giocattoli fatti di fil di ferro e scritte sui muri: l'indagine diviene censimento e raccolta, per farsi poi scultura. E così anche Claire Angelini, che sofferma il proprio sguardo sugli edifici, perché ci sono architetti dietro queste costruzioni sociali e politiche che hanno dato e danno forma alle necessità di contenimento e separazione. Nel suo film le testimonianze di alcuni “abitanti” del luogo arrivano solo dopo aver fatto conoscere i muri di Rivesaltes, il vento, la terra, la luce, la pioggia. La testimonianza, allora, diventa percezione fisica.
Il 15 novembre 2012 è stata posata la prima pietra di un memoriale per Rivesaltes, disegnato dall'architetto Rudy Ricciotti, che cercherà di raccontare le diverse memorie di un luogo. A pochi chilometri sorge il nuovo centre de rétention administrative per stranieri senza permesso di soggiorno, più moderno, più capiente e meglio sorvegliato di quello chiuso nel 2007.
Forse, intrecciando i fili delle memorie, sarebbe auspicabile iniziare a raccontare anche come le scelte rispetto agli “stranieri” influiscano nella storia della società nazionale.
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