Succede tutti gli anni, inevitabilmente. Quest’anno, però, complice la situazione di semi-clausura forzata in cui ci troviamo tutti, sta succedendo prima e con più forza. Il Festival di Sanremo – evento musicale e televisivo insieme, fenomeno culturale ma anche sociale e politico – diventa il facile catalizzatore di tante polemiche, di lunghe discussioni, risorse ed energie. È parte del gioco, e uno dei motivi che da settant’anni (compiuti da poco) contribuiscono a tenere l’evento saldamente al centro del sistema dei media e del discorso pubblico nazionali. Eppure a volte si ha l’impressione che tutto finisca fuori misura.
Il Sanremo del 2020 è stato uno degli ultimi momenti condivisi, una delle ultime cerimonie collettive prima che la pandemia cambiasse tutto (e sia il “che succede?” di Morgan mentre Bugo abbandonava il palco dell’Ariston, sia il “niente, qui non succede proprio niente” della canzone in gara di Rita Pavone, assumono con il senno di poi il valore di sinistri presagi). E con il 2021 ci si aspettava, con un certo slancio ottimista, il Sanremo della ripartenza, della rinascita, del ritorno alla (nuova?) normalità. A più di un mese dall’inizio previsto, il Festival si trova invece nell’occhio del ciclone, a fare da pietra dello scandalo e da parafulmine degli umori e delle stanchezze di tutti.
Tra l’esaltazione nelle barricate dei troppo integrati e l’indignazione tra le fila dei troppo apocalittici, sul Festival di quest’anno si consuma l’ormai consueta polarizzazione tra opposti estremismi, a ottenere gli applausi delle rispettive fazioni. Di più: per stare in sella ai cicli sempre più rapidi del dibattito social – dove i social non sono più, se mai lo sono stati, parte separata, ma elemento fondante se non principale dei media tutti, e della nostra costruzione della realtà che passa pressoché sempre attraverso i media –, il discorso polemico si muove più volte, aggiorna gli obiettivi, mescola e confonde aspetti tra loro distinti, compone un’escalation. Temi e argomentazioni si stratificano, in una confusione ora casuale e in altri casi invece consapevole e volontaria, perfettamente allineata a uno spirito del tempo imbruttito. Restando al Festival di Sanremo e alle polemiche delle ultime settimane (ma uno sguardo simile potrebbe posarsi altrove…), si possono distinguere almeno quattro grandi nuclei tematici, dove il cambio di prospettiva finisce per confondere il campo di battaglia.
Primo argomento: siamo in mezzo a una pandemia che dura da un anno, la campagna vaccinale va a rilento, la crisi economica incombe, si sta dipanando una crisi di governo, e davvero non abbiamo nulla di meglio di cui parlare che di Sanremo? Vero, giusto, sacrosanto. Ci sono ovvie gerarchie di rilevanza, e l’auspicio (venato da qualche dubbio e qualche tweet) è che chi maneggia leve di potere sappia tenerne conto nella sua azione. Ma allo stesso tempo proprio i mesi rinchiusi in casa dovrebbero averci aiutato a capire il ruolo molto importante dei media (per chi è fortunato abbastanza), non solo nell’informazione ma anche nell’intrattenimento, nel surrogare una socialità bloccata, nel dare compagnia e sollievo, nel portarci almeno un poco altrove. Gli ascolti delle reti generaliste e gli abbonamenti a Netflix sono lì a dimostrare quanto la condivisione di esperienze, lontani ma insieme, abbia valore, possa dare senso alle nostre giornate. Lo svago, l’evasione sono una fuga dal presente, certo, ma restituiscono quell’idea di comunità che da tempo ha abbandonato i balconi per spostarsi sui divani, davanti allo schermo.
Secondo tema: perché, in un momento in cui da mesi i teatri sono chiusi, i cinema sbarrati, i concerti ormai dimenticati, alla televisione può essere concesso di mettere in piedi addirittura il Festival? E vai di rimostranze e rivendicazioni di illustri artisti e direttori, di confronti qualitativi tra le arti negate e la barbarie invece concessa, di rilanci su Shakespeare, di minuziose disquisizioni sul fatto che l’Ariston sia un teatro, anzi un cinema, tra visure catastali e codici Ateco. Ha scritto bene Aldo Grasso sul “Corriere della Sera”: “naturalmente il desiderio di tutti è che i teatri riaprano, che i cinema riaprano, che l’attività culturale riprenda a pieno ritmo […], ma rivendicare le proprie aspirazioni penalizzando il Festival è solo dare retta alle sirene del populismo, un modo di pensare che nulla ha a che fare con la cultura”. È deprimente, a sessant’anni dalle riflessioni di Umberto Eco o Edgar Morin sui media di massa, ritrovare intatta la contrapposizione tra una Cultura alta, con la maiuscola, e una cultura bassa, minore, banale della tv. Ed è masochistico opporre l’apertura degli uni alla realizzazione dell’altro, settori tutti in varia difficoltà, in una sorta di “guerra tra poveri” dove finisce per perdere chiunque. Anche Sanremo potrà dare lavoro a maestranze ferme da tempo, sensibilizzare sulla cultura intera, agire da laboratorio per la ripresa.
Terzo obiettivo polemico: perché, proprio ora che il pubblico non può andare a teatro o al cinema o a un concerto, si vuole fare a tutti costi un Festival di Sanremo con il pubblico? La disparità di trattamento può sembrare evidente, e le improvvide e ostinate dichiarazioni dei conduttori, Amadeus e Fiorello, hanno fatto da benzina sul fuoco. Ma anche qui si semplifica troppo: la presenza di spettatori paganti, pure accarezzata all’inizio, è stata subito abbandonata per evidenti ragioni di sicurezza; si parla piuttosto di figuranti, pagati, a tutti gli effetti parte della messa in scena, pezzo dello spettacolo, a evitare il cupo rimbombo dello spazio vuoto, a reagire sia pur in minore a quanto avviene sul palco, e a consentire il rispecchiamento del pubblico a casa (quello vero). Dopo alcuni mesi senza, dall’estate la televisione è tornata a riempire gli studi con qualche sparuta figura di sfondo: da “C’è posta per te” a “Il cantante mascherato”, dal “Maurizio Costanzo Show” a “X Factor”, fino al riso sguaiato proveniente dala platea durante “Che tempo che fa”. Come del resto almeno alcuni teatri stanno lavorando, pur con opere destinate a televisione e streaming, così l’intrattenimento tv include tra le tante maestranze coinvolte e nei suoi dettagliati protocolli di sicurezza anche un numero ridotto di surrogati dell’audience. E Sanremo è anche, soprattutto, un programma tv.
Quarto punto, chissà se sarà l’ultimo: va bene la “bolla” protetta della produzione televisiva, ma come si può pensare di mantenere tutto l’ampio carrozzone che si sviluppa intorno al Festival di Sanremo, e che fa parte a pieno titolo della sua mitologia, del suo rituale, ma è pericolosa occasione di assembramento? Qui non hanno aiutato le speranze e volontà degli investitori pubblicitari, i tanti soldi in ballo per la Rai, le proposte balzane di mantenimento dei palchi in piazza o di creazione di improbabili navi da crociera. E nemmeno i pur comprensibili desideri dell’amministrazione cittadina e del suo tessuto turistico, allo stremo come ovunque, di fronte alla lontana ipotesi di una possibile ripresa. Ma a un mese dall’evento è chiaro che Sanremo quest’anno dovrà per forza di cose limitarsi alla dimensione di show, senza contorno se non a distanza (come da protocolli in via di definizione da parte dell’industria musicale per i cantanti e i loro collaboratori). Dentro l’Ariston e non altrove. Ancora una volta: solo un programma televisivo.
Tradizione vuole che il secondo anno consecutivo, per un direttore artistico, sia quello più difficile, in cui il rischio di ripetere la formula e di non ripetere i risultati è spesso troppo alto. Nel momento in cui hanno accettato il reincarico, Amadeus e Fiorello pensavano che l’emergenza del 2020 avrebbe fatto da cesura netta, prefigurando per il Festival 2021 spostato a marzo una situazione migliore e l’onda giusta della rinascita collettiva. Così non è andata, non ancora, e la maledizione del rinnovo anche stavolta si conferma, a cominciare dalla sovraesposizione, dalle polemiche, dalle ipotesi di annullamento o rinvio. Questo Sanremo, al di là degli auspici, non può essere e non sarà in alcun caso purtroppo un Sanremo normale. Ma pur ridimensionato nei suoi apparati e nelle sue ambizioni, lo stesso sarebbe importante che ci fosse. È già cambiato tante volte lungo i suoi settant’anni di storia, cambierà anche questa. E cambierà la prossima, e quella dopo, scatenando il solito contorno di discorsi e – speriamo – tornando a essere quell’enorme giocattolo, quella sospensione da tutto il resto, quel baraccone che amiamo. O amiamo odiare. Perché, alla fine, è poi lo stesso.
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