Intervenendo al meeting di Cl, Emma Marcegaglia ha detto che il comportamento della Fiat a Melfi è conforme alla legge; ma subito dopo si è corretta, precisando che rientra nella “prassi normale”. Il che è vero. La costante di quarant’anni di esperienza applicativa dell’ordine giudiziale di reintegra in caso di licenziamento ingiustificato è l’impossibilità pratica di darne esecuzione senza la spontanea collaborazione del soccombente. Il che non dipende soltanto dall’inadeguatezza del diritto processuale civile. Infatti, nemmeno la minaccia di sanzione penale (comminabile anche nel caso di specie, perché l’ordine di reintegra è stato emanato in seguito a un ricorso ex art. 28 st. lav.) è un deterrente capace di premere sulla volontà dell’obbligato. Pertanto, poiché la restituzione del lavoratore alle sue mansioni deve essere preceduta e preparata da un facere dell’imprenditore che la communis opinio considera infungibile, la reintegra o è volontaria e consensuale o non è.Benché il rifiuto del reinserimento sia espressione di una consolidata tendenza anti-giuridica, la sua diffusione costituisce soltanto un ottimo indizio della mediocre cultura della legalità nel nostro paese. Tuttavia, non è solo per questo che il Presidente della Repubblica ha ritenuto di dover effettuare un intervento senza precedenti. Infatti, non era mai accaduto che la più alta carica dello Stato si occupasse di una vicenda appartenente alla patologia quotidiana del mondo del lavoro. Di diverso stavolta c’è il contesto in cui si colloca la vicenda. Un contesto inusuale che ne ha ingigantito l’impatto.
In realtà, il caso-Melfi si ricollega al caso-Pomigliano, ove tutto è cominciato, e anzi ne è una variante minore.
Avevamo sempre saputo che l’imprenditore metteva in cima ai suoi desideri quello di poter dirigere un’organizzazione dove i dipendenti non scioperano, lavorano di più e guadagnano di meno, l’assenteismo è azzerato. Ma in Italia non si era mai visto che un imprenditore, per imporre condizioni di lavoro che gli permettano di realizzare l’interesse a massimizzare il profitto, arrivasse al ricatto, minacciando il trasferimento della produzione in paesi dove il diritto del lavoro è all’abc, i sindacati sono deboli, il reddito medio pro capite è basso e il governo locale può dispensare all’investitore straniero ghiotte facilitazioni di vario genere.
Ai dipendenti dello stabilimento di Pomigliano, per giustificare l’asprezza della situazione che la Fiat aveva determinato, Sergio Marchionne ha inviato una lettera il cui tenore testuale è assimilabile alla motivazione anticipata di un verosimile licenziamento collettivo: “le regole della competizione internazionale non le abbiamo scelte noi e nessuno di noi può cambiarle, anche se non ci piacciono. L’unica cosa che possiamo fare è scegliere se stare dentro o fuori dal gioco”.
Chissà di cosa può essere davvero un segno la scelta da che parte stare. Certamente, più di una logica del tipo “o mangi questa minestra o salti dalla finestra” che dell’intelligenza critica. Della quale, ad ogni modo, si contesta la stessa ammissibilità. “Io vivo nell’epoca dopo Cristo”, è la secca dichiarazione rilasciata dall’interlocutore istituzionale delle maestranze di Pomigliano, “e tutto ciò che è avvenuto prima di Cristo non mi interessa”.
Benché questo sia un atteggiamento di strafottenza, sono persuaso che esso vada interpretato come espressione del cupo presagio suggerito dalla consapevolezza che il clima politico-culturale di un’epoca in cui, con o senza il consenso dei sindacati, il lavoro si dissocia dai diritti conquistati “prima di Cristo” non rende lo strappo più legittimo di quanto non lo sia un regime razzista o dittatoriale; piuttosto, rende lecita l’opposizione che, come il razzismo e le dittature, anche la dissociazione tra lavoro e i diritti è destinata a provocare. Infatti, nonostante lo spettro della disoccupazione, a Pomigliano il sindacato più combattivo ha respinto il diktat aziendale e un terzo dei dipendenti lo ha bocciato.
Non so se il modello-Pomigliano segna un nuovo inizio delle relazioni sindacali e di lavoro. So però che, ove ciò si verificasse, dipenderà dal protrarsi dell’arretratezza dei paesi emergenti cui non potrà dirsi estraneo il comportamento di sindacati che hanno deciso di trasmettere all’opinione pubblica (anche) di quei paesi un messaggio di ragionevolezza pragmatica, dimenticando che il mondo progredisce perché ci sono momenti in cui la leadership passa a uomini che non si adattano all’esistente. Come diceva Luciano Lama, la missione dei sindacati è quella di esortare i propri rappresentati ad alzare lo sguardo dal banco di lavoro per indurli a trasformare l’ambiente circostante.
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