Le miti temperature che hanno caratterizzato la fine del 2022 ci ricordano che siamo in piena emergenza climatica. Gli ultimi otto anni hanno registrato infatti le più alte temperature dalla fine dell’Ottocento. Le immagini di montagne coperte da esigue strisce di neve artificiale mostrano ancora una volta che il cambiamento climatico sta già provocando enormi danni sociali ed economici. Purtroppo, in Italia, il dibattito pubblico tende a ignorare o banalizzare il riscaldamento globale, oppure a offrire risposte anacronistiche come i cannoni da neve di ultima generazione. Si insiste inoltre su una falsa dicotomia tra lotta alla crisi climatica e sviluppo economico. Niente di più falso: per l’Italia, in stagnazione economica pluridecennale, l’emergenza climatica è forse l’ultima opportunità per rilanciare la crescita sostenibile, creando nuove opportunità per le imprese e posti di lavoro.
Partiamo da qualche dato. Secondo l’Iea dai primi anni Duemila a livello globale c’è stata una grande accelerazione nello sviluppo delle tecnologie “verdi”, soprattutto nei settori dell’energia e dei trasporti. Questa crescita ha riguardato anche il nostro Paese: negli ultimi quindici anni le imprese italiane hanno mostrato un’attenzione crescente verso le tecnologie ecosostenibili, come sottolineato anche dal Rapporto 2021 dell’Ufficio italiano brevetti e marchi del ministero dello Sviluppo economico.
Il posizionamento tecnologico delle imprese italiane nella green economy è stato oggetto di studio negli ultimi cinque anni del Centro ricerche Enrico Fermi (Cref), di cui due autori di questo contributo fanno parte, che ha utilizzato i metodi Economic Fitness and Complexity (Efc) per studiare le capabilities produttive e tecnologiche di Paesi e regioni nella transizione sostenibile. L’Efc, recentemente adottata dalla Commissione europea e dalla Banca mondiale, utilizza nuovi sviluppi nella scienza della complessità e nei big data per analizzare le dinamiche economiche sempre più globalmente interconnesse. Studiando i profili di specializzazione produttiva e i vantaggi comparati nell’attività brevettuale, questi metodi permettono di sviluppare la green technological fitness, una misura della competitività verde delle imprese e dei sistemi di innovazione nazionali e regionali, e la green technology complexity, una misura della sofisticazione dei campi tecnologici verdi.
Superando le tradizionali analisi sui brevetti, l'Efc ha permesso di studiare la qualità e la rilevanza delle innovazioni prodotte. Secondo le nostre analisi sui brevetti verdi, l’Italia è stata molto attiva nelle innovazioni tecnologiche legate alla mitigazione e all’adattamento al cambiamento climatico, seppur con profonde disparità regionali. Se nel 2000 la quota di invenzioni ecosostenibili sul totale dei brevetti depositati da inventori italiani era del 4%, nel 2016 la percentuale ha raggiunto l’8%, in linea con la fascia alta delle quote di brevetti verdi mondiali. In un panorama dominato da Francia e Germania, con quest’ultima che produce più della metà delle tecnologie verdi europee, l’Italia è passata dal 3% nel 2000 al 4% nel 2016 del totale dei brevetti verdi europei. Sebbene queste percentuali non siano elevate, l’Italia si specializza in tecnologie molto complesse. Infatti, analizzando la complessità dei brevetti verdi, il nostro Paese si posiziona in modo continuo tra le prime cinque nazioni europee nella classifica di green technological fitness (figura 1), dimostrando che le regioni italiane hanno diversi vantaggi competitivi nelle tecnologie per la transizione verde (green capabilities).
Se nel 2000 la quota di invenzioni ecosostenibili sul totale dei brevetti italiani era del 4%, nel 2016 la percentuale ha raggiunto l’8%, in linea con la fascia alta delle quote di brevetti verdi mondiali
Come si può notare in figura 2, le capacità tecnologiche verdi italiane si sono concentrate nel 2016 su invenzioni relative a quattro settori chiave: riduzione dei gas serra nel comparto energetico (31%), mitigazione del cambiamento climatico nei trasporti (19%), edilizia (15%) e produzione di beni (15%). Tra le tecnologie più rappresentate vi sono quelle volte alla mitigazione nei trasporti su gomma (16%), tra cui diverse applicazioni per veicoli elettrici/ibridi. Invece, in ambito energetico, l’Italia tocca il picco del numero di brevetti depositati nella generazione di energia da fonti rinnovabili (19%) e nelle tecnologie per la mitigazione delle emissioni di gas serra (7%). Di contro, i brevetti relativi alla riduzione di emissioni nella generazione di energia nucleare rappresentano circa l’1%. Infine, nello stesso anno, quote importanti hanno interessato le tecnologie per la mitigazione relative alla gestione dei rifiuti – con un 5% concentrato sui rifiuti solidi, tra cui diverse applicazioni per il riciclo – e le tecnologie per l’adattamento al cambiamento climatico – con un 5% dedicato alla protezione della salute.
Per quanto riguarda la distribuzione territoriale della crescita del numero di brevetti verdi, emerge l’eccellenza delle regioni del Nord insieme a una forte eterogeneità regionale. Le regioni con una struttura produttiva diversificata hanno alti volumi di brevetti verdi, mentre quelle poco diversificate faticano a competere nei settori green, attestandosi su tassi di crescita contenuti.
In linea con la generale crescita europea del volume di brevetti verdi, tutte le regioni italiane registrano un trend positivo: in alcuni casi i volumi di brevetti raddoppiano (ad esempio in Sicilia e Lombardia), in altri triplicano (come in Emilia-Romagna), mentre in altre regioni, in particolare in Molise e Valle d’Aosta, il volume di brevetti registrati cresce ormai stabilmente dopo anni di forte discontinuità. La crescita di tutto il territorio nazionale emerge anche osservando la produzione di brevetti verdi delle regioni dei diversi Paesi europei: nonostante solo le grandi regioni del Nord si posizionino stabilmente nel top 25% europeo, nessuna regione italiana perde posizioni e, in alcuni casi, si passa da una produzione bassa a una medio-alta, come in Campania e in Trentino.
In termini di competitività e green capabilities, tra il 2000 e il 2016 osserviamo un miglior posizionamento nel panorama europeo delle regioni italiane in termini di green fitness. Lombardia e Lazio sono trainanti e rappresentano le uniche due regioni a posizionarsi in entrambi gli anni nel miglior quarto tra le regioni europee in termini di fitness. In parte a causa dell’entrata di diverse regioni del Sud ed Est Europa, assenti nelle rilevazioni dei primi anni Duemila e in accordo con trend economici più generali, in quindici anni si osservano diversi movimenti nella distribuzione di fitness europea. In Italia riscontriamo diversi balzi in avanti, con Emilia-Romagna, Toscana e Liguria che si posizionano tra le regioni europee con maggiori capacità tecnologiche verdi. Vi sono, invece, regioni che perdono in competitività verde, in particolare Piemonte e Marche, che scendono in una posizione intermedia insieme a Umbria, Friuli-Venezia Giulia e Campania.
I nostri studi, anche in collaborazione con la Commissione europea, evidenziano complementarità ed esternalità positive tra capacità tecnologiche non-green e green: anche se innovazione verde e non-verde possono competere quando le risorse finanziarie sono limitate, sviluppare tecnologie non verdi complesse richiede competenze e risorse che possono essere utili anche per l’innovazione eco-sostenibile. Dunque, le regioni ancora indietro nella transizione sostenibile potrebbero puntare a sviluppare combinazioni di know-how che hanno maggiori probabilità di favorire lo sviluppo in ambito verde, come nell’archiviazione digitale, nell’ingegneria meccanica, in particolare legata agli impianti di illuminazione, e nella chimica, in particolare nei cementi e nelle ceramiche e nel trattamento delle acque reflue.
Le regioni ancora indietro nella transizione sostenibile potrebbero puntare a sviluppare combinazioni di know-how che hanno maggiori probabilità di favorire lo sviluppo in ambito verde
Le imprese italiane sono dunque ben posizionate nelle tecnologie e nei settori collegati alla lotta all’emergenza climatica. Questa competitività deve essere sfruttata per cogliere le opportunità offerte dai processi di reshoring che secondo l’Iea porteranno alla rapida espansione delle filiere europee collegate all’energia solare ed eolica, alla produzione di batterie, elettrolizzatori e pompe di calore, nonché nella decarbonizzazione dei settori “hard-to-abate” come l’acciaio, il cemento, la plastica e la mobilità. Ci sono inoltre elevate sinergie da sfruttare con le grandi imprese a controllo pubblico, le cui competenze tecnologiche e industriali sono essenziali per decarbonizzare l’economia. Alcuni esempi sono offerti da Enel nella produzione di pannelli solari di ultima generazione e di centrali elettriche integrate basate su fonti rinnovabili, e da Terna nella realizzazione di collegamenti elettrici sottomarini per creare hub energetici verdi tra Sardegna, Sicilia e Tunisia; mentre la Svezia offre un esempio di collaborazione tra imprese pubbliche e private nella produzione di acciaio prodotto con idrogeno verde che potrebbe essere replicato nel nostro Paese.
Per cogliere le abbondanti opportunità derivanti dalla decarbonizzazione dell’economia – l'Unione europea si è impegnata a ridurre le emissioni nette del 55% entro il 2030 e di azzerarle entro il 2050 –, lo Stato deve aiutare le nostre imprese inaugurando una nuova stagione di interventi di regolamentazione e di politiche industriali e d’innovazione verdi, come indicato dall’ultimo Rapporto dell’Iea e perseguito dagli Usa con l’Inflation Reduction Act. Lo Stato innovatore deve sostenere la cooperazione tra imprese pubbliche e private, abbandonando una visione di neutralità tecnologica per seguire i passi indicati dall’Iea per decarbonizzare attraverso l’elettrificazione su larga scala dell’economia e con investimenti massicci in energie rinnovabili, che dovranno coprire il 90% del fabbisogno elettrico nazionale nel 2050. Le politiche d’innovazione e industriali verdi devono essere coadiuvate da regolamentazioni che impediscano, ad esempio, la vendita di auto con motore endotermico dal 2035 e di caldaie a gas dal 2025 o che impongano standard energetici stringenti agli edifici.
Oltre a offrire opportunità di crescita alle imprese, la transizione verde creerà nuovi posti di lavoro nel settore elettrico e nell’industria manifatturiera legata all’energia caratterizzati da migliori retribuzioni. I processi schumpeteriani di distruzione creatrice della decarbonizzazione porteranno a profondi cambiamenti strutturali dell’economia italiana. Una trasformazione che richiederà un ruolo attivo dello Stato nel sostegno e formazione dei lavoratori e nella gestione delle crisi aziendali, che possono essere un’occasione per riposizionare le imprese coinvolte nelle produzioni verdi, come mostrato dal piano di rilancio della ex Gkn di Firenze scritto dai lavoratori insieme ai ricercatori della Scuola Sant’Anna.
Il tempo che ci separa dal 2030 sarà fondamentale non solo per ridurre del 55% le emissioni di gas serra dell’Italia, ma anche per rilanciare la nostra economia che langue da molti lustri. Le nostre imprese hanno le competenze tecnologiche per cogliere le opportunità di crescita della transizione verde, stimolando la crescita della produttività e l’occupazione, ma devono essere supportate dallo Stato con una nuova primavera di politiche industriali e d’innovazione.
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