Nei giorni scorsi l’istituto Swg ha rilanciato i risultati di un sondaggio secondo cui i giovani italiani avrebbero attribuito, in occasione della recente tornata elettorale, un ampio consenso alla Lega: ben il 38% di voti nella fascia di età 18-21 anni, poco meno nella fascia più adulta. Questo studio riprende le conclusioni di una ricerca precedente, condotta dal Pew Research Center in alcuni Paesi europei, che evidenziava l’anomalia dei giovani italiani: meno a sinistra dei loro coetanei esteri, meno progressisti sui diritti civili e sull’immigrazione, più euroscettici. Ma è davvero così trionfante l’onda sovranista tra le nuove generazioni?
Prima di lanciarsi in ardite interpretazioni è utile ricordare che dal voto europeo è possibile ricostruire unicamente le scelte della minoranza di giovani che si sono recati alle urne (attorno al 40%, secondo lo stesso sondaggio Swg), mentre assai poco si riesce a sapere di quegli elettori che non hanno partecipato perché presumibilmente meno motivati e interessati alla politica (saranno anche meno estremisti?). Fatta questa premessa necessaria, proviamo allora a rileggere il dato del 2019, ancora incerto nella sua articolazione, con uno sguardo assieme comparativo e retrospettivo.
La domanda da farsi non è tanto quanti consensi abbia conquistato la Lega tra i giovani, ma se (e quanto) i giovani abbiano votato in discontinuità con il resto della popolazione al punto da alimentare il cambiamento attraverso il loro voto differente. Da questo punto di vista è lecito avanzare qualche dubbio. La storia del voto giovanile in Italia ci ricorda che, mentre in passato le nuove coorti di elettori avevano più volte anticipato le tendenze generali (si pensi al successo delle sinistre negli anni Settanta o, nella stagione successiva, al riflusso dai partiti di massa), una spinta analoga non si è riproposta successivamente, se non in sporadiche occasioni.
Nella Seconda Repubblica le scelte dei giovani sono rimaste quasi sempre indistinte rispetto a quelle degli adulti, non riuscendo a spiegare il successo elettorale delle diverse formazioni, neppure di quelle nuove. L’unico vero momento di discontinuità c’è stato nel 2013, con il voto compatto per il M5S, ma già nel 2018 questa eccezionalità è rientrata e il partito, pur crescendo, non è riuscito a trattenere a sé una generazione politica. Alle elezioni dello scorso anno la proposta di Salvini ha guadagnato consensi, ma senza particolare convinzione tra i giovani. Sul totale degli elettori leghisti gli under 30 erano solo il 13%, meno della presenza media nella popolazione e molto meno del 47% di elettori nella fascia 31-60 anni (cfr. G. Passarelli e D. Tuorto, La Lega di Salvini, Il Mulino, 2018).
D’altronde, la Lega non ha mai investito sui giovani, non li ha mai considerati un target rispetto allo zoccolo duro di un elettorato maturo e ben radicato nel mercato del lavoro. Dal canto loro, in assenza di posizioni, identità e ruoli sociali da difendere perché largamente inattivi e ancora in transizione, i giovani fanno fatica a riconoscere nella proposta sovranista istanze vicine ai loro interessi. Certo, resta lo spazio ideologico della destra estrema, oggi ampiamente presidiato o legittimato dal leghismo, con la sua persistente capacità di attrazione – come ci ricorda Christian Raimo nel suo Ho 16 anni e sono fascista (Piemme, 2018). Ma questo c’era già negli anni Novanta, quando Alleanza nazionale riusciva a imporsi come primo partito tra i giovani. Rispetto ad allora, il voto estremista non trova le stesse condizioni di contrapposizione ad alimentarlo, con la crisi della sinistra istituzionale. E allora, se la Lega non può essere ancora considerato un approdo certo, che cosa resta?
Il Partito democratico ha perso da tempo il primato della rappresentatività tra i nuovi elettori, avendo invertito drasticamente il profilo per età che aveva ereditato dal vecchio Pci. Restano segmenti di popolazione giovanile, fedeli per socializzazione pregressa ma non più rappresentativi. Contro questo trend negativo, il Pd di Matteo Renzi è sembrato in grado di recuperare voti e fronteggiare la sfida del M5S, ma ha resistito poco. Agitare il conflitto generazionale per scardinare il vecchio sistema ed enfatizzare la flessibilità dei legami liquidi contro la rigidità delle appartenenze forti non potevano essere parole vincenti neppure tra i giovani nel Paese delle solidarietà allargate, della famiglia lunga, dell’incompiuta modernizzazione.
Manca all’appello quella che è stata forse la novità più interessante del voto giovanile, l’affermazione delle formazioni ecologiste in alcuni Paesi del Centro-Nord Europa (clamorosa in Germania, dove i Grünen superano il 21% con punte del 34% tra gli under 30, secondo il sondaggio dell’Istituto Infratest dimap). Pur con tutte le ambiguità del posizionamento politico e delle alleanze, il voto ai Verdi intercetta una parte rilevante dei consensi in uscita dai socialisti rivolgendosi in primis alle componenti più giovani, istruite e progressiste della società, ai cittadini critici della cosiddetta “sinistra cosmopolita”. Incontra le istanze di preoccupazione globale espresse nelle manifestazioni dei Fridays for future. Si fonda sui temi (non solo sul leader) e prova a coniuga ambientalismo, intervento pubblico e maggiore attenzione per le disuguaglianze. È, assieme al voto per i partiti liberali, l’espressione più attuale dell’europeismo che fa da contrappeso al sovranismo. Segue però un chiaro divide geografico, stentando ad affermarsi nei Paesi mediterranei in cui i giovani istruiti e postmaterialisti non premiano la stessa offerta politica.
Nel caso dell’Italia colpisce un dato apparentemente irrilevante: tra i connazionali all’estero, il partito dei Verdi ha raggiunto l’11% rispetto al 2% raccolto in Italia. È l’effetto di un'internazionalizzazione delle scelte di voto, di un’onda che non riesce ad arrivare nel nostro Paese. Si tratta, certo, di elettori più istruiti e di età media più bassa della popolazione nazionale. Ma anche pareggiando le condizioni socio-demografiche, con ogni probabilità gli italiani in Italia non esprimerebbero lo stesso consenso per il partito.
Nel corso della loro storia i Verdi non hanno mai sfondato a causa di errori strategici e di leadership, ma anche per l’ambiguità e l’approssimazione di una parte del Paese e della politica sui temi ambientali, così come per la scarsa consapevolezza pedagogica ed educativa maturata a livello istituzionale e nei luoghi della formazione, in primis la scuola. Tali mancanze hanno reso la gioventù italiana priva di anticorpi in grado di fronteggiare oggi i populisti, quando il contenitore più grande della sinistra ha cominciato a indebolirsi e il “tappo a cinque stelle” è in buona parte saltato. Nella breve stagione in cui è stato dominante, il M5S ha provato a incanalare le questioni giovanili dentro un contenitore originale, in cui trovavano spazio pulsioni “etiche” post-materialiste ed ecologiste con posizioni liberali (liberiste?) di individualizzazione delle scelte, valorizzazione del merito, disintermediazione. Questa strada, tanto interessante quanto effimera, si è evidentemente interrotta con la svolta governista e il depotenziamento della base del partito.
Alla fine, il voto giovanile in Italia ritorna a essere compresso: non ancora monopolizzato dal leghismo e dalla destra, in minima parte intercettato dal Pd e dalla sinistra, residualmente presidiato dal M5S. Questa incertezza non fa che aumentare il rischio di esclusione dei giovani dalla scena politica attuale perché sempre meno numerosi come coorte elettorale, meno centrali nelle strategie dei partiti e meno decisivi per il successo.
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