Questo articolo fa parte dello speciale Un Piano per il Paese
Una cosa è certa: senza il Pnrr l’unione degli Stati membri dell’Unione europea si sarebbe sgretolata. Una sorta di ultima chiamata, generata dalla crisi Covid, ha ottenuto una risposta che, visti i precedenti mancati appuntamenti europei di aiuto prestato a chi era più in difficoltà, non era scontata in partenza. Di questo ci dobbiamo rallegrare, senza se e senza ma, sempre che si parta dal presupposto, condiviso da chi scrive, che l’Unione europea avrebbe tutto il potenziale per essere lo strumento di governance istituzionale del continente che ci può traghettare un giorno a un’unione federale politica dal nome Stati Uniti d’Europa, così da metterci per sempre alle spalle il fantasma mai sopito di una nuova guerra interna e regalare alle future generazioni europee un dono, quello della pace perpetua, di cui saranno sempre grate.
Condizione dunque necessaria, la domanda chiave rimane ovviamente quella del se lo strumento del Pnrr sia anche sufficiente a garantire la stabilità dell’unione di popoli europei sotto la bandiera dell’Ue. Chi scrive fa parte di coloro che affermano “no, affatto” e mi spetta in quanto segue di motivare questa mia posizione su di un’insufficienza da addebitare proprio al Pnrr stesso piuttosto che a una debolezza strutturale dell'Ue che non poteva essere aiutata dallo stesso Piano. Detto in altro modo, un altro Pnrr avrebbe potuto essere sufficiente alla bisogna europea.
È il Pnrr stesso a essere insufficiente, non le debolezze strutturali dell’Ue a essere troppo forti. Un altro Pnrr avrebbe potuto essere sufficiente alle necessità europee
Il primo difetto del Pnrr è emerso chiaramente alla sua nascita. L’art. 10 del regolamento Ue 2021/241 del Parlamento europeo e del Consiglio, «Misure per collegare il dispositivo a una sana governance economica», datato 12 febbraio 2021, che istituisce il dispositivo per la ripresa e la resilienza, prevede come «la Commissione può presentare al Consiglio una proposta di sospensione totale o parziale degli impegni o dei pagamenti […] se il Consiglio adotta due raccomandazioni successive nella stessa procedura per squilibri eccessivi […] motivate dal fatto che uno Stato membro ha presentato un piano d’azione correttivo insufficiente». Il Pnrr è stato dunque firmato con un do ut des sottostante: io (Ue) ti do i fondi per far fronte a questa drammatica crisi, tu (Italia) ti impegni a mantenere il rientro del deficit-Pil con tagli di spese e aumenti di tassazione. Dunque un passo avanti ma anche uno indietro: con una mano ti do e con l’altra ti tolgo risorse per sostenere la tua economia in tempi di difficoltà.
Rispetto all’Europa del Fiscal compact che ha caratterizzato tutto il decennio trascorso, in cui l’Italia è arretrata drammaticamente, almeno adesso «stiamo fermi», come l’Italia del triennio Covid, che da fine 2019 a fine 2022 vedrà il suo livello di Pil immutato, avendo noi finito per recuperare (guerra permettendo) il livello di produzione pre-Covid. Ma da fermi, è bene dirlo, vediamo il treno del mondo sfrecciare davanti a noi, lasciandoci indietro. Ma anche il treno europeo: nel triennio 2020-22 la nostra stasi rappresenta infatti la peggiore performance di uno Stato membro Ue, così proseguendo nel calo del nostro peso economico – e dunque politico – all’interno dell’area dell’euro (dal 19% del 2020 al 14% del 2022).
Il perché di questo vertiginoso declino per il nostro Paese risiede in parte nell’impossibilità di venire incontro, per il tramite della politica fiscale nei momenti di crisi ciclica, alle difficoltà di imprese e persone, generando chiusura di aziende, pessimismo, isolamento individuale. Ciò è avvenuto prima con il Fiscal compact e ora, in misura minore ma significativa a causa del Pnrr. Dimostrarlo è semplice. Il governo Conte, nel suo Documento di economia e finanza – il primo che comprendeva il sostegno del Pnrr – dovette promettere all’Ue un impressionante calo del deficit-Pil (in tempi di pieno Covid!) dal 10,8% al 3% (quest’ultimo valore ovviamente simbolico e legato alle priorità austere europee) in 3 anni, più di 150 miliardi di euro in meno di spese e in più di tassazione, metà di queste discrezionali e cioè non dovute alla (sperabile) ripresa. Draghi si affrettò, non a caso, a dire cose analoghe se non ancora più austere: deficit-Pil in calo dall’11,8% al 3,4% nel suo Def 2021, un calo addirittura anticipato nell’ultima Nadef autunnale. Con una mano si riceve, con l’altra si restituisce.
Mai tutto ciò è apparso più evidente che non dopo avere letto qualche settimana fa il nuovo Def 2022 presentato dal ministro Franco. La novità di contesto era quella del grave calo della crescita economica in atto per il 2022, quasi dimezzata dal 4,7% previsto pochi mesi prima, stimata al comunque ottimistico 3,1%. Ci si aspettava dunque una politica fiscale espansiva attenta a venire in soccorso dell’emergenza in cui si trovano famiglie e imprese. Nulla di tutto ciò: non solo il deficit-Pil resterà ancorato a quello dichiarato – 5,6% – nella Nadef autunnale, ma, a guardare con attenzione, si prevede che il saldo primario (il deficit al netto delle spese per interessi) sia ulteriormente diminuito dal 2,7 al 2,1% di Pil. Per far fronte alla maggiore spesa per interessi dovuta alla maggiore inflazione si decide di non rinunciare all’obiettivo di riduzione del deficit mentre si rinuncia a sostenere l’economia in disgrazia!
Il declino di opportunità del nostro Paese non è solo dovuto all’Europa ma alle nostre manchevolezze nel saper spendere bene: in ciò siamo, lo sappiamo, una peggior pratica europea. E qui un secondo difetto del Pnrr va emergendo chiaramente, legandosi anch’esso a una condizionalità, la seconda del Pnrr, l’eventuale stop all’erogazione dei fondi in mancanza di rispetto del raggiungimento di obiettivi e traguardi previsti e di puntualità di spesa. Parliamo dell’occasione mancata di riformare la macchina amministrativa pubblica, investendovi sopra per spendere meglio e in tempo.
Che sia così lo mostrano già i primi dati sulla spesa effettuata sinora con i fondi Pnrr: il ministro dell’Economia Franco, nel corso di un’audizione parlamentare, ha detto che sinora per «vecchi» progetti inseriti nel Pnrr sono stati spesi 5 miliardi. L’osservatorio Orep ha verificato che tra il 2020 e il 2021 dovevano essere effettuate spese per un totale di 15 miliardi di euro, uno scarto di 10 miliardi tra la spesa effettiva e spesa prevista. Insomma, nulla di nuovo sotto il sole.
Il Pnrr non è un piano keynesiano. È figlio di un'Europa e di una classe dirigente che non crede fino in fondo al ruolo dello Stato nell’economia
La capacità amministrativa delle nostre stazioni appaltanti centrali e locali, sfidata dal Pnrr, non sta rispondendo come dovrebbe. Ma è naturale che sia così: le spese che il Pnrr contiene per rigenerare tale capacità amministrativa per il tramite di nuovo e più competente personale sono drammaticamente ridicole (720 milioni con Conte, 730 con Draghi, in 6 anni), con contratti a tempo spesso determinato (quindi senza potere di firma), selezionato con concorsi a risposta multipla (quindi senza garanzia di capacità operativa) e con requisiti professionali e stanziamenti che al contempo impediscono la selezione di figure junior volenterose e di senior esperte.
Il vulnus di questo Pnrr, potrà apparire un paradosso, è che esso non è un piano keynesiano, perché è figlio di questa Europa e di questa classe dirigente che non crede fino in fondo al ruolo prezioso dello Stato nell’economia. Non credendovi, non è basato, come avrebbe dovuto, sul reinventare una pubblica amministrazione competente per la nuova economia del XXI secolo e investirvi sopra. In tal senso, a mio avviso, è destinato a fallire nel salvare l’Ue, pur avendoci, per qualche anno, fornito l’ossigeno per sopravvivere momentaneamente.
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