L’imponente dotazione di spesa pubblica del Pnrr è davvero la “grande occasione” non solo per riparare i danni sociali ed economici inflitti dalla pandemia al nostro Paese ma anche per ridurre permanentemente il divario civile e produttivo tra Nord e Sud? 230 miliardi di spesa pubblica per un periodo di sei anni, a cui si aggiungeranno altre decine di miliardi derivanti dai bilanci ordinari e dalle politiche regionali di coesione, rappresentano senza dubbio un’adeguata massa di risorse finanziarie per sostenere processi di innovazione performanti nella società e nell’economia nazionali. Tuttavia, come è noto, la spesa pubblica in sé, anche se ingente, è soltanto una delle condizioni abilitanti dei processi di trasformazione, a maggior ragione se, come nel caso del Pnrr, all’incirca la metà è destinata a realizzare opere pubbliche, spesso, peraltro, senza finanziamenti correnti per i servizi complementari.

Altri fattori sono altrettanto importanti per sostenere cambiamenti duraturi: la qualità degli interventi, l’efficienza e l’efficacia della spesa, l’integrazione delle diverse fonti finanziarie, la rapidità dei tempi di attraversamento degli investimenti. Contano molto le aspettative sociali e imprenditoriali, la fiducia e la credibilità nella profezia della “grande occasione”, la mobilitazione di saperi ed esperienze diffusi. E ancora, decisivo è il ruolo delle istituzioni politiche e amministrative, la qualità e lo spirito di missione del management pubblico, le capacità tecniche, progettuali e gestionali delle amministrazioni centrali e locali, l’adeguatezza dei sistemi di governance, di monitoraggio e di valutazione.

I soldi sono determinanti, ma l’enfasi sulle dotazioni quantitative, che ha finora caratterizzato l’asfittico dibattito pubblico sul Pnrr, ha messo in ombra gli altri requisiti fondamentali che concorrono al possibile successo “trasformativo” del Piano, in particolare la presenza di istituzioni “inclusive”. Istituzioni di scarsa qualità, tanto più se di natura “estrattiva”, orientate cioè a conseguire benefici dallo status quo, sono congenitamente di ostacolo allo sviluppo e all’innovazione, come evidenzia la storia pluridecennale delle politiche a sostegno del Mezzogiorno e non solo.

Per curare e cambiare un Paese non basta la sola spesa pubblica, c’è bisogno di una visione, di un disegno condiviso di cambiamento possibile, di mete mobilitanti, di raccolta di conoscenze, bisogni e “sogni” diffusi. Tanto più quando un Paese, come l’Italia, è allo stesso tempo estremamente variegato e afflitto da storiche e severe fratture sociali e territoriali.

Per curare e cambiare un Paese non basta la sola spesa pubblica, c’è bisogno di una visione, di un disegno condiviso di cambiamento, di mete mobilitanti, di raccolta di bisogni e “sogni” diffusi

Il difetto originario più grave del Pnrr è quello di essere intenzionalmente un Piano top-down, un assemblaggio “dall’alto” per sommatoria di misure, azioni e interventi senza una diagnosi e un progetto di cambiamento: un piano “tecnico” di un governo “tecnico”, senza politica, senza geografia, senza discussione e confronto pubblico sui risultati attesi. Un “grande tutto” scentrato.

Come per tutti i piani top-down, non è trascurabile anche per il Pnrr il rischio che generi nelle classi dirigenti e nei soggetti coinvolti nella sua implementazione un sentimento di estraneità operativa o un’adesione particolaristica: dalla propria nicchia, dalle convenienze di parte, dei singoli, dalle opportunità di crescita per punti indipendentemente dal resto, dagli impatti di sistema, dal cambiamento dell’insieme. Sotto questo profilo, il Pnrr, come paventa Gianfranco Viestiè un “progetto di efficientamento di quel che esiste oggi”: semmai amministrazioni più efficienti e digitalizzate, scuole tecnologicamente più dotate, università più ricche di laboratori e di strumentazione tecnica, città un po’ più green, ferrovie e strade un po’ più veloci e sicure, imprese con macchinari più sofisticati, “borghi” con opere pubbliche e patrimoni edilizi meno fatiscenti.

Un’Italia più moderna ma probabilmente non meno diseguale di prima, con più servizi ma non con meno squilibri di cittadinanza sociale e territoriale, con imprese potenzialmente più competitive ma con un sistema produttivo aggregato con persistenti divari interni e ritardi di innovazione, con università più collegate alle imprese ma più subalterne al sistema economico e con più precari, con industrie con più impianti smart ma con una crescita nazionale persistentemente lenta, sotto il potenziale.

Per il Sud il rischio è ancora più grande. Il Mezzogiorno ha una lunga tradizione storica di adattamento a piani e progetti esogeni, dall’“alto”. Così come ha sedimentato diffuse capacità di manipolazione e torsione particolaristica, nella sfera politica e sociale, delle risorse trasferite dal centro, da Roma o Bruxelles o da qualsiasi altro polo erogatore, fino a stratificare un ampio ceto di soggetti politici e professionali specializzati nell’intermediazione e redistribuzione di risorse finanziarie pubbliche centrali. Risorse spesso indirizzate a consolidare consensi elettorali e rendite di potere, ad alimentare la domanda aggregata piuttosto che l’offerta, e dunque a reiterare la dipendenza da trasferimenti.

Nel tempo questo processo ha consolidato in larga parte del Mezzogiorno forme di “sviluppo senza autonomia”, come le ha definite Carlo Trigilia in un saggio ormai classico dei primi anni Novanta del secolo scorso, caratterizzate da crescita del reddito eterodiretta, non in grado però di attivare processi di sviluppo autonomi, duraturi, e dal rafforzamento di classi dirigenti locali, nella sfera politica ed economica, interessate unicamente a intermediare risorse esterne come opportunità di legittimazione e di consenso.   

Lo stigma tecnocratico e l’impianto top-down del Pnrr, intrinsecamente incapaci di individuare i bisogni, le diversità sociali e territoriali, di scovare i soggetti e le forze interessati alla trasformazione e all’innovazione, le debolezze e i colli di bottiglia della trappola del “non sviluppo”, rischiano, come nel passato, la “modernizzazione passiva” del Mezzogiorno, per rifarsi alla categoria analitica proposta da Luciano Cafagna.

Nel Pnrr manca un progetto di cambiamento attivo del Mezzogiorno né, di conseguenza, si individuano gli attori per costruirlo e una strategia coordinata tra soggetti e interventi

Nel Pnrr, infatti, non ci sono tracce esplicite di un progetto di cambiamento “attivo” del Mezzogiorno né, di conseguenza, si individuano gli attori per costruirlo e una strategia coordinata tra soggetti e interventi. Anche nel caso del Pnrr è dunque presumibile che a dominare saranno le sollecitazioni esterne connesse alle risorse finanziarie del Piano, la spontaneità e la puntiformità dei mutamenti legati ai singoli investimenti, la bassa o nulla unitarietà strategica e l’assenza di identificazione tra i segmenti che si modernizzano e la collettività nel suo insieme. Qualcosa avverrà, ma non si tratterà di una risposta strategica, dal momento che mancano gli attori protagonisti, le loro preferenze e azioni trasformatrici, un percorso di cambiamento indicato e gestito politicamente.

La colata di spesa pubblica sottesa al Pnrr che interesserà il Sud, superiore o inferiore al feticcio del 40%, indurrà, sperabilmente, assetti infrastrutturali più evoluti, una estensione e un rafforzamento delle strutture e dei servizi di cittadinanza, una più robusta dotazione di servizi scolastici e sanitari, abitazioni più sicure e a più basso impatto ambientale, e svariati altri miglioramenti puntuali. Nel 2026, anno di chiusura del Pnrr, è assai probabile che ci troveremo di fronte a un Mezzogiorno nell’insieme migliore di quello odierno. Altrettanto probabile è che il Mezzogiorno del 2026 continuerà a mostrare i caratteri della dipendenza, della precarietà produttiva e occupazionale, dell’emigrazione, della distanza dalle regioni più sviluppate d’Europa. Il primo anno di implementazione del Pnrr mostra più indizi che vanno in questa doppia direzione.