Gianfranco Viesti da subito ha seguito con attenzione le vicende del Pnrr, su cui ha anche pubblicato un ottimo libro. Con un suo recente articolo, rilancia alcune sollecitazioni rivolte soprattutto alle sinistre che, in Parlamento e nel Paese, potrebbero svolgere un ruolo più incisivo, superando la pur legittima denuncia congiunturale dell’incapacità realizzativa del governo Meloni.

Viesti ribadisce la condivisibile convinzione che il Pnrr, pur mettendo in luce limiti antichi del sistema Italia, è una occasione straordinaria e unica da utilizzare al meglio per fare un salto di qualità nelle politiche pubbliche nazionali e locali. Pratica e suggerisce un ottimismo della responsabilità oltre che della volontà: evitare polemiche strumentali per suggerire e chiedere politiche di reale risarcimento dei territori, delle istituzioni e delle popolazioni che da decenni patiscono l’ampliamento delle diseguaglianze, tanto più rispetto al grave rischio di una “secessione dei ricchi” (autonomia differenziata) e vigilando sulle rimodulazioni coordinate dal ministro Fitto che forse semplificano qualcosa ma non sono migliorative.

Credo sia utile mettere in luce qualche altro aspetto meritevole di attenzione. Una efficacia sostantiva degli investimenti del Pnrr è impedita proprio dalla natura, dalle scelte di fondo del piano per come è stato disegnato dai vertici europei nella trattativa iniziale con i governi Conte e Draghi. Si tratta di considerazioni che possono aiutare a svolgere valutazioni più appropriate in merito ai processi e all’efficacia dell’insieme del Pnrr e di tante sue articolazioni e che potranno meglio orientare anche proposte utili per la programmazione.

Innanzitutto la questione dei tempi: la volontà dei “Paesi frugali” di adottare la tempistica triennale dei bilanci europei per solo due cicli (in sei anni tutto avviato e rendicontato) stava scritta in qualche tavola della Legge o è stata una scelta di fondo – riduttiva per un vero New Deal – che di fatto ha condizionato inevitabilmente molti aspetti del programma? Scelta, esito di una trattativa politica fra Commissione europea e governo italiano, che ha banalizzato l’analisi delle precondizioni dell’Italia, imponendo “solo” molte riforme di cui si dovrà vedere in seguito l’impatto reale. Detto in altre parole, i limiti del sistema Paese, le carenze dell’amministrazione pubblica, l’impostazione delle normative tutte centrate sulla cura conformativa più che sostantiva, non andavano meglio considerate nel disegno dei vincoli di base del programma straordinario?

La natura economicistica del Pnrr. È noto che il programma, pur elencando una ampia gamma di possibili interventi coerenti con le migliori retoriche europee (giovani, ambiente, innovazione) è stato concepito come una straordinaria breve stagione di galvanizzazione dell’economia, immettendo nei circuiti ritenuti più affidabili (i lavori pubblici tradizionalmente intesi), una grande mole di risorse, in parte – non piccola – prese in prestito. È evidente una correlazione fra questi primi due caratteri: anche se era possibile prevedere e inserire nel programma molti tipi di interventi, il vincolo sui tempi di fatto ha consigliato ai redattori (vertici ministeriali, responsabili degli enti locali), una particolare riduzione di complessità, ad esempio mettendo negli elenchi innanzitutto interventi già previsti e ad un buon grado di implementazione. Anche una parte delle scelte di rimodulazione del ministro Fitto sono motivate dai vincoli sui tempi. Questo con il rischio dell’iniqua banalizzazione degli investimenti: si veda la richiesta di aumento dei sussidi alle imprese, sollecitato da Confindustria e giustamente stigmatizzato da Viesti, o il taglio dei fondi per la valorizzazione dei beni confiscati, oppure il taglio di spese di piccolo taglio suggerito dal ministro Fitto che, invece, come scrive Viesti, potranno dare un rilevante contributo all’efficacia complessiva delle spese quando immaginate in programmi di tipo integrato.

La centralità egemone delle spese per investimento. Si tratta come è noto di un criterio base dell’Unione che d’altra parte non è neutrale né giustificato da teorie indiscutibili. Sostanzialmente questo vincolo di fondo implica che la massa degli investimenti è indirizzata a spese per infrastrutture fisiche, contenitori (riusati o del tutto nuovi). Molto poco o quasi nulla per le spese correnti: quelle che poi dovranno far funzionare i servizi (personale, manutenzione, spese di gestione). Viesti fa il noto esempio delle Case della Salute che le inchieste giornalistiche hanno già indicato come pratiche abbastanza inefficaci rispetto agli obiettivi dichiarati. Non a caso alcune amministrazioni locali più illuminate (Città metropolitana di Roma ma anche Napoli, Bologna e altri comuni) stanno provando a costruire una sorta di strategia plurifondo per realizzare almeno in parte interventi per servizi e manutenzioni, con altre risorse anche europee che però hanno tempistiche differenti. Anche qui però, le amministrazioni con più difficoltà, spesso del Sud, finiranno quindi per essere ulteriormente penalizzate dalla mancanza di condizioni per essere virtuose?

Egemonia di un approccio conformativo più che sostantivo.Nella conferenza della Società italiana degli urbanisti tenutasi a Cagliari a giugno, Gian Maria Flick ha argomentato che i giuristi sono per formazione orientati a interpretare un’impostazione conservativa delle politiche e delle procedure. Molto modestamente, da qualche decennio di anni di ricerca informata anche da pratiche nei meandri periferici di alcune politiche sociali, ho maturato la convinzione che si tratta di un dato egemonico nel modo di essere di gran parte della Pubblica amministrazione in Italia. Ad esempio nelle filiere di progetti Pnrr per il contrasto alla povertà educativa e alla dispersione scolastica, gestiti prima dall’Agenzia per la Coesione e poi direttamente dalla presidenza del Consiglio, inoltre sette mesi, con procedure farraginose assegnate a un gruppo forse troppo piccolo di bravi e gentili funzionari, ai soggetti attuatori che hanno presentato progetti ritenuti meritevoli di finanziamento, oltre a richiedere fideiussioni, ritardando l’erogazione degli anticipi per i controlli di regolarità in merito a Durc ed eventuali pendenze Equitalia, sono state richieste una varietà di informazioni riferite al numero complessivo di beneficiari ipotizzati (che era un vincolo del progetto).

In pratica, le associazioni hanno dovuto presentare le schede di iscrizione e i codici fiscali di tutti i beneficiari previsti, che da cronoprogramma dovevano essere presi in carico in circa ventiquattro mesi di attività. Si tratta evidentemente di una misura precauzionale per presentare poi a possibili controlli della Commissione l’effettivo raggiungimento dei target (n. di beneficiari). L’esperienza insegna che si tratta di un indicatore significativo che però può non voler dire assolutamente nulla in merito agli esiti degli interventi. E la procedura imposta di fatto sollecita un “trattamento amministrativo dei bisogni” distraendo risorse da una indispensabile e faticosa cura delle qualità. Si tratta di un piccolo esempio che credo abbia molte storie simili e sia indicativo delle distorsioni dovute alla concentrazione dell’investimento delle risorse cognitive ed economiche sulla conformità a regolamenti (magari vecchi e ipertrofici). Una riduzione di complessità che di fatto riduce nella sostanza i livelli di efficacia, apprendimento e che a mio avviso è sostanzialmente rafforzata dall’impostazione a monte del Pnrr. Una questione spinosa e non recente su cui il Pnrr nella sua impostazione di fondo non dà alcun contributo positivo, sollecitando invece un’attenzione centrata sull’efficienza e non sull’efficacia degli investimenti.

Condividendo l’ottimismo della responsabilità quindi, insieme a diversi ricercatori e con lo stesso Viesti, nei lavori del Centro Nazionale di studi per le politiche urbane www.urban@it.it stiamo elaborando contributi di analisi del Pnrr. La postura proattiva non può sminuire analisi anche critiche, difficili ma necessarie, per sollecitare scelte ancora in corso e da fare e prassi attuative, necessariamente non fondate solo sull’indispensabile buona volontà. In questo vanno sollecitati gli stakeholder con responsabilità politiche, i referenti dei media, ma anche il lavoro dei ricercatori e dei professionisti riflessivi implicati nei processi può dare un utile contributo anche teorico oltre che proattivo. Forse mettendo in discussione anche qualche orientamento teorico e politico dei vertici dell’Unione che può essere legittimamente criticato.