Come mostrano molto bene tutti i dati disponibili, nel nostro Paese ricerca scientifica e innovazione sono malati gravi. Ma ora, con i tagli previsti dal decreto sulla spending review, anche se dovessero sopravvivere, rischiano danni irreparabili. È questo il rischio che, fuor di metafora, corre il nostro Paese. L’Università è stata risparmiata, ma è ormai ridotta all’osso dai tagli già subiti. A essere colpiti in maniera drastica sono gli altri enti pubblici dove si sviluppa la ricerca e si crea innovazione attraverso la produzione di nuova conoscenza: dall’Agenzia spaziale italiana all’Istituto nazionale di astrofisica, dall’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia al Consiglio nazionale delle ricerche, all’Istituto Nazionale di fisica nucleare e molti altri ancora, in tutto dodici enti di alta qualità facenti capo al Ministero.
Ma anche il nostro Istituto nazionale di statistica, l’Istat, che ha il compito fondamentale di censire la popolazione, fornire dati di qualità, affidabili e tempestivi su tutti gli aspetti rilevanti del nostro Paese, indispensabili per orientare le politiche pubbliche e fondamentali per ogni indagine su come cambia la vita degli italiani, ha subito tagli ai finanziamenti tali da fare dire al suo presidente, Enrico Giovannini: «dal prossimo gennaio non effettueremo più statistiche».
Alcuni quotidiani hanno fatto notare il paradosso tutto italiano di elogiare l’eccellenza dei risultati scientifici (come la scoperta del bosone di Higgs) per poi calare la scure (questo il premio!) proprio sul suo artefice, quell’Istituto Nazionale di fisica nucleare colpito con un taglio di oltre 9 milioni di euro (-3,79%) per il 2012 e di 24,3 milioni (-10,1%) per il 2013 e 2014. I tagli si abbattono – è questo il punto – su una realtà, quella della ricerca, da sempre trascurata in Italia. È dai primi anni Novanta che si assiste a un pesante arretramento dell’incidenza della spesa per ricerca sul Pil. Nel 2009 (sostenuta da imprese, istituzioni pubbliche, istituzioni non profit, università) in Italia è risultata pari all’1,26% (v. Istat, Ricerca e sviluppo in Italia, 2011), fanalino di coda tra i Paesi europei più avanzati (Svezia 3,62%; Germania 2,82%; Francia 2,21%; Regno Unito 1,87%). L’obiettivo a livello di Unione europea posto dal programma «Horizon 2020» che fissa una spesa minima in R&S pari al 3% del Pil, è per noi un sogno.
Se il settore pubblico è sempre stato avaro nel sostenere la ricerca, anche le imprese private anziché investire in R&S per migliorare la produttività e la competitività delle aziende, hanno spesso imboccato la strada più comoda, ma miope, scegliendo di assumere giovani precari a basso costo. Ed è proprio da questa situazione di forte ritardo della ricerca e dalla scarsa capacità di valorizzare le competenze esistenti che ha origine la tanto inutilmente lamentata «fuga dei cervelli». Ma investire nella ricerca e nello sviluppo del capitale umano non rappresenta certo una spesa superflua, bensì un’assoluta necessità di tipo economico (oltreché civile) in una società che non a caso viene chiamata «della conoscenza», caratterizzata cioè da processi di innovazione permanente e sempre maggiori livelli di formazione e di apprendimento. Occorrerebbe invece, proprio in presenza di una crisi di proporzioni enormi, progettare politiche coerenti per la ricerca invece che tagli indiscriminati e inutili retoriche sull’eccellenza.
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