Durante le poche ore trascorse a Berlino la premier britannica Theresa May sembra essere riuscita a strappare alla cancelliera Merkel alcune concessioni sui tempi di uscita del Regno Unito dalla Ue a seguito del voto referendario. «È comprensibile che la Gran Bretagna abbia bisogno di preparare con calma un negoziato e che le trattative si svolgano in un clima di reciproca fiducia», ha detto la leader tedesca durante la conferenza stampa che ha chiuso la visita. Assai meno conciliante è invece apparso poche ore più tardi François Hollande che ha invitato gli inglesi ad avviare a breve le procedure previste dall’articolo 50 del trattato di Lisbona perché, ha aggiunto, «Brexit è un problema da risolvere in fretta nell’interesse di tutti». Dal canto suo May ha ribadito a entrambi gli interlocutori che Londra «non farà alcun passo prima del 2017» e che intanto il suo esecutivo vuole definire una posizione comune con Scozia, Galles e Ulster prima di avviare il dialogo con Bruxelles.
Si tratta di un obiettivo irraggiungibile. Ormai da settimane Nicola Sturgeon, alla guida della Scozia, domanda a gran voce in ogni occasione pubblica un secondo voto sull’indipendenza per poi chiedere, in caso di prevedibile successo, di restare in Europa. La stessa Sturgeon lo scorso venerdì durante un vertice con i suoi omologhi di Galles e Ulster si è fatta promotrice di un documento ufficiale nel quale si afferma che i singoli parlamenti devono essere coinvolti a pieno titolo nel processo e approvare ogni scelta fatta da May e dal suo esecutivo. A rendere ancora più tesa l’atmosfera sono stati i dati sull’andamento della crescita, con pessimi segnali per il futuro. «La notte del 23 giugno il nostro sistema finanziario Rolls Royce, che rappresenta il 13,5 del Pil, si è purtroppo trasformato nel modello Trabant», ha affermato il governatore della Banca d’Inghilterra, chiamando in causa la poco funzionale vettura in uso nella Germania comunista.
Le previsioni diffuse dai principali istituti di ricerca confermano questa tesi: il Pil crescerà solo di un modestissimo 0,4 per cento nel 2017 (prima di Brexit la stima era del 2,6), il valore della sterlina contro euro e dollaro continuerà a scivolare verso il basso, centinaia di migliaia di posti di lavoro saranno cancellati a causa della fuga verso l’area Ue delle grandi multinazionali asiatiche o statunitensi. A giudizio di molti analisti della City, con Brexit l’economia britannica tornerà ai livelli del 2008, quando la crisi internazionale si manifestò in tutta la sua virulenza. Un indizio in questo senso è rappresentato dalla caduta dell’indice di fiducia dei manager e degli imprenditori elaborato dalla società Markit, che nel suo consueto rapporto mensile segnala come sia caduto a luglio sotto la soglia dei 50 punti, toccando il livello più basso dell’ultimo decennio.
Intanto David Davis, esponente della destra tory con delega alla Brexit, ha fatto capire con estrema chiarezza i risultati che intende raggiungere: mantenere la libera circolazione dei capitali e garantirsi il controllo dei confini. Massimo beneficio commerciale, dunque, e minimo impatto migratorio. Neppure la pur conciliante Merkel lo seguirà su una strada impossibile da percorrere perché viola uno dei principi fondamentali dell’intero progetto europeo. May, dal canto suo, punterà a dividere in due distinte mani di carte i problemi più complessi sul tappeto: da un lato le condizioni dell’uscita e dall’altro gli indispensabili accordi per i futuri rapporti. All’insegna dei modelli magari rappresentati da Norvegia e Svizzera, ritenuti abbastanza vantaggiosi dagli inglesi. Al contrario l’Ue non ha alcun vantaggio nell’assecondare May, mentre deve puntare a raggiungere una serie di patti capaci di abbracciare ogni questione in campo.
Dal 24 giugno i tabloid popolari hanno continuato a raccontare ai loro lettori la favola di un Regno Unito che, dopo aver spezzato le catene con l’Ue, tornerà grande sul piano internazionale come ai tempi di Vittoria e dell’Impero. Le stime per il futuro rese note durante gli ultimi giorni parlano di una realtà diversa: a causa di Brexit i britannici si sono impoveriti, per loro non è prevista una decrescita felice. I sudditi di Elisabetta stanno pagando un prezzo altissimo a causa dell’esito del referendum. Senza contare la «ribellione» di Scozia e Irlanda del Nord, che aggiunge ulteriore instabilità a un quadro politico attraversato da una rivoluzione sul piano istituzionale che non si ricordava da decenni, forse da secoli. I conservatori garantiscono che Theresa May è il medico giusto per trovare la cura adatta ad ogni male. C’è da dubitarne. Per comprendere chi ha ragione saranno sufficienti pochi mesi. Le cifre del Pil e degli scambi commerciali, i cambi tra sterlina e dollaro e tra sterlina e euro, con la moneta nazionale in caduta libera, sono in proposito giudici severi e impietosi.
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