Nel frenetico tourbillon mediatico degli ultimi giorni, dal processo Ruby alla guerra in Libia, dalle manovre sul processo Mills alla catastrofe giapponese, c’è una notizia apparentemente minore ma in realtà assai importante. Con un decreto del 31 marzo, il governo ha autorizzato la Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) ad assumere partecipazioni in società di rilevante interesse nazionale. Il caso da cui nasce il decreto è la scalata a Parmalat da parte dei francesi di Lactalis. Le argomentazioni con cui il ministro Tremonti lo ha annunciato sono state, al solito, immaginifiche e un po’ generiche: si è parlato di nostalgia per il vecchio Iri.
Ma il decreto è serio. Il nostro governo torna a sfoderare lo strumento più forte dell’armamentario delle politiche industriali: l’acquisizione diretta di società private con fondi pubblici. Anzi, si va oltre, prevedendo che questo possa avvenire anche ricorrendo alla raccolta postale gestita dalla Cdp: un grande tesoro di risparmio delle famiglie, che va investito con criteri estremamente prudenziali, dato che è anche garantito dallo Stato. Lasciamo subito perdere la facile ironia sul governo “liberale” che ricorre al più forte strumento interventista. Se questo aiutasse a far passare la sbornia ideologica degli ultimi anni, secondo cui tutto quello che fa il mercato è giusto e l’intervento pubblico è demoniaco, non sarebbe un male. Di politiche industriali è bene discutere; e se si agisce è bene essere attenti, pragmatici, rifuggere delle facili ideologie.
Ma in questo caso c’è un “però” grande quanto una casa. Un governo serio, che decidesse di riattivare, anche con questi strumenti estremi, una politica industriale, dovrebbe in primo luogo spiegarci quali sono i suoi obiettivi. Per quali importanti fini usa i denari pubblici, mai preziosi come in questo periodo. Il paragone con l’Iri non regge: allora – successive degenerazioni a parte – c’era una strategia di salvataggio prima e di sviluppo industriale del paese dopo. Il Piano Sinigaglia per la siderurgia pubblica è stato un tassello della costruzione dell’Italia moderna.
Perché oggi il latte di Parma è così decisivo? Mistero. Leggiamo il decreto: le società “di rilevante interesse nazionale” lo sono in termini di “strategicità del settore di operatività, di livelli occupazionali, di entità del fatturato, di ricadute per il sistema economico-produttivo del paese”. Tradotto: tutte e nessuna. Tradotto meglio: sono quelle che decide il ministro dell’Economia. Con quale strategia, con quali obiettivi? Non si sa.
Ciò che si vuol fare per la Parmalat (come con altri strumenti si è fatto per l’Alitalia) non è deciso sulla base di una missione nazionale che si vuol perseguire. Valutando (cosa difficilissima e impervia) se e perché il grande interesse nazionale stia nel latte o nel controllo di attività ad altissima tecnologia o in grandi infrastrutture. Si fa sulla base di un criterio semplice: quello che decide il ministro Tremonti.
Nessuna sorpresa allora. Siamo all’ennesima versione della “Berlusconian economics”: nessun obiettivo di lungo termine, avversione per le regole, decisioni assolutamente discrezionali, caso per caso, affare per affare.
Quello che non smette di destare sorprese sono le reazioni dell’opposizione. L’opposizione non avverte il senso e i pericoli di questa decisione, magari rivendicando una strategia di politica industriale, quella di Bersani dell’ultima legislatura, che pure con molti difetti, aveva il pregio di essere chiara nelle finalità e trasparente nell’allocazione delle risorse. Non contesta, botta su botta, le tante discutibili decisioni del superministro, ma invece per bocca del vicesegretario del Pd Enrico Letta lo propone addirittura come futuro presidente del Consiglio. Ma perché allora gli italiani dovrebbero smettere di votarlo?
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