Questo articolo fa parte dello speciale Verso il 25 settembre
1. Il presidenzialismo, nell’arco della nostra storia repubblicana, è stato un tema carsico che ha attraversato sotto traccia l’intero percorso di questa storia per emergere, di volta in volta, in congiunture politiche diverse e in passaggi cruciali della vita nazionale. È dunque utile provare a riflettere sul senso di questo percorso ove s’intenda valutare la compatibilità di una forma di governo ispirata al presidenzialismo con i caratteri propri del nostro sistema politico e del nostro impianto istituzionale.
Partiamo da una prima constatazione che sfiora soltanto la superficie del problema. Il presidenzialismo nel nostro sistema politico non è stato patrimonio esclusivo di una ideologia o di una forza politica, avendo trovato in tempi diversi condivisione e sostegno sia a destra che a sinistra. Già in sede costituente, come sappiamo, la scelta di una forma di governo presidenziale fu sostenuta nel programma del Partito d’Azione trovando un difensore molto efficace in Piero Calamandrei, sinceramente convinto che il presidenzialismo unito al federalismo secondo il modello nordamericano fosse la forma di governo più idonea per garantire in Italia l’introduzione di un regime democratico. Nella sua visione, infatti, il nostro Paese era scivolato nella dittatura non per la presenza di governi forti, ma di governi deboli.
La prospettiva del presidenzialismo alla Costituente restò, peraltro, minoritaria e fu ben presto abbandonata, forse ancor più che per lo “spettro del tiranno” che ancora aleggiava, per la valutazione molto realistica che i costituenti operarono in ordine alle condizioni che venivano a caratterizzare il sistema politico nel momento in cui si dovevano stabilire con la nuova Costituzione le regole fondamentali della nascente Repubblica.
La prospettiva del presidenzialismo alla Costituente restò, peraltro, minoritaria e fu ben presto abbandonata, forse ancor più che per lo “spettro del tiranno” che ancora aleggiava
Un sistema politico che, come rilevava nel settembre del 1946 Costantino Mortati nella Seconda Sottocommissione della Commissione dei 75 introducendo il tema della forma di governo, si presentava segnato da forti tensioni e divisioni interne per la presenza di “molti partiti molto divisi”. Erano quindi le radicali fratture del tessuto sociale rispecchiate nella disomogeneità e frammentazione della politica che inducevano i costituenti – dopo l’approvazione del famoso ordine del giorno Perassi – ad adottare la scelta di un governo parlamentare in quanto forma più idonea alle esigenze di una convivenza democratica tra forze molto contrapposte e divise.
La scelta che allora fu operata fu, dunque, più che ideologica, una scelta di tecnica costituzionale in quanto sorretta da una analisi molto approfondita e attenta delle radici storiche e dello stato di fatto di un sistema politico quale quello riemerso dopo l’esperienza fascista nel secondo dopoguerra, sistema segnato da un alto e rischioso livello di disomogeneità interna.
Dopodiché, costruito con la Carta del 1948 un impianto pluralista e garantista che veniva a trovare il suo specchio naturale e diretto nel governo parlamentare, il tema del presidenzialismo, salvo rare e marginali eccezioni, scompariva dalla scena politica per riemergere solo alla fine degli anni settanta nel disegno di “grande riforma” costituzionale promossa dal Psi di Bettino Craxi: una riforma che poneva come primo obbiettivo la “governabilità”, cioè il superamento di quelle condizioni di instabilità e inefficienza che avevano caratterizzato i governi nel primo trentennio di vita repubblicana, condizioni che venivano imputate sia alla presenza di una legge elettorale ispirata rigorosamente al principio proporzionale sia all’esistenza di una Costituzione eccessivamente garantista in quanto troppo gravata da cheks and balances.
Il dibattito che allora si aprì sul rafforzamento dell’esecutivo fu molto intenso fino a condurre dopo molti passaggi, nel 1993, alla sostituzione del sistema elettorale proporzionale con un sistema prevalentemente maggioritario che avrebbe dovuto portare alla nascita di un impianto politico bipolare in grado di migliorare, attraverso un meccanismo di alternanza nell’azione di governo, la funzionalità del nostro sistema parlamentare. Questa prospettiva, mentre muoveva da una forte critica di come il nostro governo parlamentare aveva sino ad allora funzionato (anche in conseguenza dell’esistenza di una struttura parlamentare sorretta da un anomalo bicameralismo paritario), trascurava di considerare il fatto che a questa forma di governo andava anche riconosciuto il merito della complessiva tenuta dell’impianto istituzionale e del radicamento graduale, attraverso lo sviluppo del sistema delle libertà e delle autonomie territoriali, delle basi della nostra democrazia.
In questa fase, che impegnava il passaggio tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso (fase che molti commentatori insistono ancora impropriamente a qualificare come avvio di una Seconda Repubblica), nascevano su iniziativa del Parlamento le tre Commissioni bicamerali (la Commissione Bozzi nel 1983; la Commissione De Mita – Jotti nel 1992; la Commissione D’Alema nel 1997, istituite per avviare, con un largo consenso di tutte le forze in campo, una stagione di riforme dirette a modificare la seconda parte della Costituzione e, in particolare, il funzionamento della forma di governo che negli orientamenti della politica si intendeva sempre più indirizzare verso un rafforzamento dell’esecutivo. Ma nessuno dei progetti elaborati da queste tre Commissioni, come sappiamo, giungeva in porto per la difficoltà di maturare un accordo sulle scelte di fondo.
2. Se ripensiamo a questo percorso che l’idea presidenzialista ha avuto nel nostro Paese dobbiamo riconoscere che il modello di forma di governo più elaborato e compiuto connesso a tale idea è stato quello discusso e definito tra il 1997 ed il 1998 nell’ambito della Commissione D’Alema. Un modello che cercava di combinare l’impianto del semipresidenzialismo di stampo francese con la tradizione parlamentare italiana e che, pertanto, veniva allora definito nel linguaggio giornalistico come una forma di “semipresidenzialismo temperato all’italiana”. Ma anche questo progetto alla fine abortì per la rottura dell’intesa fra destra e sinistra sui temi della giustizia, rottura che portò alla interruzione dei lavori della Commissione.
L’idea presidenzialista che, in tempi diversi, è ripetutamente affiorata nel nostro Paese non ha mai condotto ad approdi concreti. Almeno sinora
Si deve, quindi, riconoscere che l’idea presidenzialista che, in tempi diversi, è ripetutamente affiorata nel nostro Paese non ha mai condotto ad approdi concreti. Il fatto è che tutti coloro che questa idea hanno coltivato, sia pure da angolazioni politiche diverse, sembrano essersi ispirati a una convinzione apprezzabile, ma di stampo illuminista: alla convinzione cioè che al malfunzionamento della politica e all’inadeguatezza di una classe governante si potesse porre rimedio attraverso modifiche del modello costituzionale. Tesi fallace dal momento che viene a riferire a un difetto della macchina costituzionale le disfunzioni prodotte essenzialmente dalla cattiva qualità del carburante politico cui spetta il compito di far funzionare la macchina.
3. Oggi, dopo anni di silenzio, il tema del presidenzialismo ritorna di attualità in relazione al disegno di legge costituzionale (Atto Camera n. 716; Atto Senato n. 1489) presentato alle Camere nel giugno del 2018 da Fratelli d’Italia per l’elezione diretta del Capo dello Stato.
Il disegno, formalmente respinto dalla Camera nel maggio del 2022, rimane attualmente al centro dell’attenzione del mondo politico per il fatto di essere stato riproposto da Fratelli d’Italia come uno dei primi obbiettivi del proprio programma di governo per la prossima legislatura. Se consideriamo che analogo obbiettivo viene proposto nei programmi elettorali anche dalle altre due formazioni della destra (Forza Italia e Lega) nonché dalla nuova formazione di centro (Azione-Italia Viva), con previsioni elettorali che danno vincente lo schieramento di destra, la prospettiva presidenziale sembra, dunque, oggi per la prima volta nel nostro Paese presentare buone probabilità di successo.
Ma qual è la vera posta in gioco che questa riforma viene a mettere in campo? Un passo avanti nella stabilità dei governi o un passaggio rischioso verso una maggiore instabilità dell’intero impianto costituzionale?
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