Molte delle difficoltà attuali, nelle drammatiche vicende dell’immigrazione che si svolgono nel Mediterraneo e hanno ripercussioni in tutta Europa, risiedono nella distinzione tra migranti economici e richiedenti asilo.
Sul piano giuridico è tutto chiaro: il profugo fugge da una delle persecuzioni elencate nella Convenzione di Ginevra del 1951 (ad esempio per motivi politici o religiosi) e, presentando domanda alle autorità competenti, diviene richiedente asilo e può (in caso di accoglimento della domanda) trasformarsi in rifugiato. Il migrante economico è colui che si sposta in base a considerazioni economiche, per migliorare la sua condizione: in assenza di decreti flussi o altri strumenti simili previsti dalle normative nazionali, si può considerare un clandestino e può essere rimpatriato.
Meglio, quindi, evitare le semplificazioni che abbiamo sentito anche in questi giorni: chi se la sentirebbe, ad esempio, di definire «clandestina» una famiglia con minori in fuga dalle aree della Siria occupate dall' Isis? È vero però che nella realtà la situazione è molto più complessa e le distinzioni sono più sfumate: quando sui barconi, avvistati a sud di Lampedusa, si accalcano decine o centinaia di persone senza documenti e provenienti da molti e diversi Paesi africani e asiatici, tutto diventa più difficile.
Innanzitutto a causa dei numeri: la pur notevole situazione del 2011, che aveva messo in crisi il sistema italiano di accoglienza con 65 mila arrivi, è stata ampiamente superata: nel 2014 gli arrivi sono stati 170 mila e quest'anno ogni previsione è legata a sviluppi politici difficilmente prevedibili.
Il 6 giugno scorso il «Guardian» ha pubblicato un resoconto di Chris Hughes a bordo della nave inglese HMS Bulwark, una delle 11 unità impegnate nel Mediterraneo a seguito dell'operazione Triton, nel quale si citano testimonianze dirette che parlano di circa 500.000 profughi di varia provenienza, presenti in Libia e disposti a tentare la traversata.
Si comprende quindi come l'opinione pubblica europea si mostri progressivamente sempre meno sensibile ai richiami umanitari e sempre più tentata dai richiami xenofobi, dei quali l'ultima testimonianza si può considerare l'annunciata costruzione di un muro ai confini serbo-ungheresi.
L'opinione pubblica europea si sta mostrando sempre meno sensibile ai richiami umanitari e sempre più tentata dai richiami xenofobi
A fronte di una simile situazione, nessuno può negare la necessità di un maggiore coordinamento europeo, che anzi deve svilupparsi su di un triplice fronte: i soccorsi in mare, la redistribuzione (la cosiddetta relocation) nei vari Paesi dell'Unione ma anche e soprattutto criteri e tempi coordinati nella gestione delle domande di asilo.
Il passaggio da Mare Nostrum a Triton ha comportato numerose polemiche, ma non può essere liquidato come uno sganciamento dell'Europa dagli obblighi umanitari e dal salvataggio di vite umane. La gestione dei soccorsi rimane fondamentale, almeno finché la situazione di guerra civile in Libia rende impraticabile qualunque ipotesi di gestione del fenomeno sul suolo africano.
Naturalmente su questo versante risulteranno decisive le risorse economiche messe effettivamente a disposizione di Frontex. Sul piano della redistribuzione, le proposte della Commissione di metà maggio si scontrano con inevitabili resistenze politiche, ma non va sottovalutato che, per la prima volta, sono stati individuati criteri tecnici (popolazione di ogni Paese, Pil, disoccupazione, capacità di assorbimento) che hanno permesso di identificare percentuali di riferimento per ognuno dei 25 Paesi coinvolti (con l'esclusione di Danimarca, Irlanda e Regno Unito, a causa della procedura di opt-out).
In un certo senso si sono poste le premesse per il superamento del sistema di Dublino 2, che stabilisce che l'onere dell'accoglienza dei richiedenti asilo tocca al primo Paese europeo in cui il profugo arriva, che nel 2003 era stato varato su pressione dei Paesi nordeuropei. La strada sarà lunga, ma si discute nel concreto.
Per rivendicare il superamento di Dublino 2 è però necessario che tutti i Paesi membri (ma in particolare quelli che si affacciano sul Mediterraneo) uniformino regole, tempi e procedure nell'esame delle domande di asilo e nelle procedure dei rimpatri. Un processo che le direttive europee hanno realizzato solo in parte. Per capirci, non ha molto senso discutere di un approccio europeo comune se poi la Spagna cerca di rimpatriare tutti i profughi che arrivano a Ceuta e Melilla o la Grecia boccia tutte le domande o l'Italia consente tempi di ricorso lunghissimi anche a persone provenienti dall'Ucraina o dal Gambia.
È necessario che tutti i Paesi membri (in particolare quelli che si affacciano sul Mediterraneo) uniformino regole, tempi e procedure nell'esame delle domande di asilo e nelle procedure dei rimpatri
Se si esaminano i Paesi di provenienza (che resta il criterio principale, anche se le domande sono individuali) delle 626 mila domande di asilo pervenute nel 2014 nei vari Paesi dell'Unione europea, scopriamo che solo il 43% proviene dalla Siria o dai Paesi del Corno d'Africa, che sono provenienze per le quali le domande hanno buone possibilità di essere accolte. Mentre sono in aumento quelle da Paesi come Nigeria, Gambia, Senegal, Costa d'Avorio o anche Mali, per le quali è più probabile la classificazione di migrazione economica.
Nell’emergenza attuale è necessaria una maggiore attenzione ai Paesi di provenienza fin dalla fase iniziale di esame delle domande. Per l'Italia occorre uno sforzo di velocizzazione delle procedure, di fronte a numeri sempre più ampi, cercando di ridurre il fenomeno dei continui ricorsi, esercitati attraverso lo strumento del gratuito patrocinio legale. Occorre inoltre semplificare le procedure dei rimpatri, riducendone i costi.
Proprio nella gestione delle procedure è possibile rinvenire la distinzione tra profughi e clandestini, senza la quale l'ondata xenofoba è destinata a sommergere tutta l'Europa.
Riproduzione riservata