Se è vero che le case sono spesso lo specchio delle persone che le abitano – nel gusto, nel carattere – quella parigina di Rossana Rossanda certamente lo è, con la sua eleganza severa, l’essenzialità, i colori sobri. Poche fotografie, in bianco e nero, con le persone della sua vita: oltre a Karol Kewes Karol (per tutti K.S. Karol), il grande amore conosciuto a Roma a 40 anni, inviato dell’«Express» e del «Nouvel Observateur», per il quale si trasferì a Parigi nel 2006, morto nel 2014, si riconoscono gli amici e colleghi del «manifesto», tra i quali Luigi Pintor e Lucio Magri alle cui spalle fanno capolino gli occhi di Luciana Castellina. Dietro una larga scrivania colma di carte, libri e naturalmente un computer dove continua a scrivere, c’è lei sulla sedia a rotelle, una memoria di ferro e l’aria intransigente di chi non fa sconti a nessuno, prima di tutto a sé stessa.

Si illumina nel rievocare la stagione da consigliere comunale a Milano, in due amministrazioni, guidate tra la fine degli anni Quaranta da Antonio Greppi e gli anni Cinquanta da Virgilio Ferrari: «Era il periodo delle grandi immigrazioni dal Sud al Nord, ricordo per esempio che avevamo fatto un censimento completo delle strutture scolastiche», un lavoro concreto e utile, a differenza dell’esperienza alla Camera, dove viene eletta nel ’63:

«In Parlamento non si può fare niente. Al Comune veramente si contava. A Montecitorio molto meno, da comunista all’opposizione, poi, nulla. Ne ho un ricordo noioso. Al Comune eravamo in 80, un ambito più ristretto, il contatto con una città era più facile che con un Paese, e io conoscevo bene Milano. Avevo la possibilità di uno scambio diretto… allora in Lombardia era forte la corrente di sinistra della Democrazia cristiana. Avevamo un buon dialogo».

Nel frattempo Rossanda era entrata nella segreteria del partito a Milano, insieme, tra gli altri, ad Armando Cossutta, Giorgio Milani, Aldo Tortorella, Elio Quercioli. Tutti uomini. In Parlamento «eravamo 14 comuniste e non molte altre donne, su 630 parlamentari. C’era anche la figlia di Nenni [Giuliana, al Senato, N.d.R.]». E i colleghi come si comportavano? Erano rispettosi e mostravano considerazione per il vostro lavoro? «Non posso dire che fossero maleducati. Erano loro che decidevano. Sa come sono gli uomini. L’importante è che si sentano i padroni della situazione». Con altrettanta schiettezza, però, alla domanda sui rapporti con le colleghe di partito – Nilde Iotti, Giuseppina Re e altre – Rossanda ammette:

«Buoni, ma non di lavoro. Io ero per così dire «un uomo» nel Pci. In generale, nel partito e nel sindacato, non c’era una percezione particolare del problema femminile se non in termini di uguaglianza: questo era sentito. Nilde e le altre si occupavano in modo particolare delle cose che sono assegnate alle donne: i bambini, l’educazione diciamo elementare, e poi la cura degli ammalati, dei vecchi, che ancora adesso è affidata alle donne».

Questo non vuol dire che non interagisse con le compagne: «Ma certo. Nel partito ci si trovava regolarmente assieme. I comitati federali, i comitati cittadini, le inchieste sulle immigrazioni si facevano anche con loro».

Il vento del Sessantotto. Ambientarsi a Roma, dove era diventata responsabile della politica culturale di Botteghe Oscure, non è facile. Si sente affine a Milano, che conosce intimamente, alla sua cifra operaia, all’aria seria e laboriosa che contrasta con quella caotica e borgatara della capitale. Ma con il tempo si abitua, entra nel flusso della vita capitolina: frequenta i compagni – Cesare Luporini, Sergio Garavini, Bruno Trentin, Giuseppe Chiarante, Romano Ledda, Luciana Castellina – va a cena con loro in trattoria, gode dei bei tramonti. La morte improvvisa di Palmiro Togliatti, nell’agosto del ’64, piomba come un macigno, gli eventi precipitano nel congresso del ’66: la linea, pur non codificata, di Pietro Ingrao perde (con il sospetto di frazionismo), Rossanda e gli altri «ingraiani» ne escono a pezzi, esautorati dagli incarichi. Delusa, amareggiata, per non dire furiosa... quando si sente dire di no anche dall’Einaudi alla sua proposta di andare a lavorare a Torino, scaraventa un bicchiere di vetro contro una parete, sotto gli occhi sbigottiti di Karol! Non sa ancora che stanno per alzarsi i venti del Sessantotto.

Una rivolta che sembra dare risposta alla sua scelta di essere una

«comunista dura e pura: volevo la fine delle ingiustizie. La prima ingiustizia è di chi può molto e di chi non può niente. Non è affatto vero, come pensava la Rivoluzione francese, che si nasce uguali e si resta uguali nei diritti per tutta la vita. Si nasce inuguali e si cerca di stabilire un’uguaglianza. E per lo più si perde»,

così commenta nel documentario girato in occasione dei suoi novant'anni da Mara Chiaretti.

Cominciata nel ’67, negli atenei italiani la protesta dilaga dall’inverno del ’68 e lei la segue, osserva, interviene in Aula magna a Venezia pur avvertendo particolarmente la tensione di fronte a una platea diversa dal solito, giudicante. Dalla sua conoscenza nasce il libro L’anno degli studenti, in cui fa un’analisi meticolosa delle diverse realtà – Trento e Venezia, Pisa e Torino – e spiega, nell’introduzione, come gli studenti fossero un agente sociale nuovo, il battistrada di una rivoluzione anticapitalistica «che sia immediatamente partecipazione, rifiuto della delega, socialismo che si fa in tutti e ciascuno come liberazione di un diverso bisogno, una diversa morale. La “lunga marcia attraverso le istituzioni”, questo è». Il movimento porta con sé un mutamento di costumi, sarà un punto di non ritorno nella società italiana:

«Durante l’occupazione le ragazze rimanevano nelle università con i ragazzi anche di notte, un fatto prima di allora impensabile. Sono anche gli anni in cui si diffonde la psicoanalisi (per opera, fra gli altri, di Cesare Musatti) che determina un cambiamento culturale importante rispetto alla questione dei rapporti sessuali».

A maggio è a Parigi con Lucio Magri e Filippo Maone, tutti e tre su una Giulia piena di taniche di benzina per far fronte allo sciopero generale. È testimone emozionata della folla all’Odéon, radunata a parlare senza un ordine e un tema, solo per il fatto di essere lì insieme, o dell’urto tra gli studenti e gli operai della Renault di Billancourt che si attengono all’accordo siglato dal sindacato e tornano in fabbrica mentre gli universitari portano «alla classe operaia la bandiera rossa che sventolava sulla Sorbona perché la prendesse dalle loro fragili mani»… Frammenti di un’epoca di cui «si dovrebbe parlare con serietà, quasi solennemente, perché sia chi la apprezza sia chi la detesta non nega che abbia costituito una cesura storica». Mutatis mutandis, un po’ come quella che si compie nel Pci con la Primavera di Praga e la nascita del «manifesto».

Quante volte ne abbiamo letto, e quante altre volte ancora lo si farà provando lo stesso sconcerto.

 

[Questo testo è tratto da L’intelligenza e l’intransigenza. Rossana Rossanda, di Eliana Di Caro, uno dei contributi di Donne nel Sessantotto (Il Mulino, 2018)]