Oltre ad alimentare i giornali e intrattenere le chattering classes alla vigilia delle elezioni, che ci stanno a fare i sondaggisti? Mentre cerco una risposta a questa domanda, fisso tre punti che mi sono venuti in mente stamattina presto, mentre ascoltavo i risultati italiani delle elezioni europee. Tutti e tre riguardano l’Italia: per l’Europa il quadro è differenziato, e quello francese veramente preoccupante, ma occorrerà maggiore riflessione per decifrarlo. Il primo punto riguarda la cresima del Partito democratico. Nato e battezzato, è vero. Ma non ancora cresimato, riconosciuto come membro adulto dell’ecclesia liberal-democratica. Ci aveva provato Veltroni. C’è riuscito Renzi, un ragazzo fiorentino coraggioso fino all’avventatezza, politico d’istinto: la storia ha un grande senso dell’ironia. Per me – scusate il riferimento personale, ma non riesco a reprimerlo – è il coronamento di un sogno coltivato da quando ebbi una breve esperienza parlamentare, vivo ancora Beniamino Andreatta e presidente del consiglio Romano Prodi. E non mi illudo sull’assenza in futuro di conflitti interni e regressioni culturali. Ma se penso ai tempi non lontani in cui la pattuglia liberal all’interno del partito non arrivava al 10%, sopraffatta dall’usato sicuro comunista e democristiano, la rivoluzione c’è stata, l’unica da cui può nascere un vero partito, un partito con un’anima. Una rivoluzione nata dalla forza, come nascono le vere rivoluzioni. Si tratterà di approfondirla, dargli strumenti culturali e organizzativi per convincere i perplessi, per trasformare i non pochi che sono accorsi in soccorso del vincitore in militanti che sappiano spiegarsi e spiegare le ragioni del cambiamento, che lo sappiano connettere alle ragioni profonde della sinistra in un mondo radicalmente diverso dal passato.
Il secondo punto riguarda il futuro prossimo. Di Renzi, del partito, del governo. Si dice: ora Renzi non ha più scuse, deve realizzare quello che ha promesso. Se con questo si intende fare le riforme che il governo ha impostato, nulla di più vero. Se invece si intende ottenere subito i risultati economici e sociali che dalle riforme ci si aspettano, nulla di più falso. Vuol dire non avere un’idea delle difficoltà in cui ci dibattiamo e dei tempi che saranno necessari per superarle. Questo non è “gufare”, e se Renzi così pensasse si sbaglierebbe, e pericolosamente: rimettere in sesto la nostra economia, la nostra politica e la nostra pubblica amministrazione- e solo da questo può provenire crescita e occupazione- prenderà tempo, auspicabilmente un tempo più breve di quello che la politica ci ha messo a scassarle, ma sempre un tempo lungo. Ma siccome gli elettori non sono interessati alle riforme di per sé, ma ai risultati delle riforme, ad un’economia che tira, ad una amministrazione che funziona, ad una occupazione che cresce, ciò vuol dire che il governo rischia di perdere popolarità nei prossimi mesi. Per sfuggire a questo pericolo, Renzi deve dare l’idea di muoversi con determinazione e velocità -in Italia con le riforme strutturali, in Europa con un riorientamento verso la crescita- e minacciare credibilmente le dimissioni (“non me l’ha ordinato il dottore…”) di fronte a intoppi, una volta ottenuta la legge elettorale e la riforma del senato.
Il terzo punto riguarda l’assetto del nostro sistema politico, alla luce delle indicazioni che provengono dal grande sondaggio che si è appena svolto. Anche apprezzando come si deve l’oggetto del “sondaggio” (l’Europa) e tenendo conto che l’astensionismo si ridurrà di molto nelle prossime elezioni politiche, queste elezioni ci dicono che la minaccia di Grillo può essere contrastata e che ancora si può puntare sul disegno Renzi-Berlusconi della riforma elettorale, una riforma spietatamente bipolarizzante. Per evitare tentennamenti, occorre convincere Berlusconi e le destre che non sono sconfitti in partenza. Ed effettivamente non lo sono, se giocano bene le loro carte. La carta migliore è ovviamente una coalizione: Alfano ce l’ha fatta a passare l’asticella dello sbarramento, Berlusconi ha ottenuto un risultato accettabile –date le circostanze e la distribuzione regionale delle astensioni – e ora tutto dipende dall’intelligenza politica delle leadership di questi due partiti, dal modo in cui riusciranno a mettere da parte i loro dissensi in modo credibile per i loro elettori. La partita non è persa, anche se, nel prossimo set, la destra potrebbe accontentarsi del second best di ridimensionare ulteriormente Grillo. In un sistema tornato bipolare, le occasioni per sfidare con successo la sinistra non mancheranno di certo.
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