Una grande opportunità per l'Africa? Da anni si prospetta la possibilità che la Cina possa destare l’Africa dal torpore economico in cui è vissuta per gran parte del XX secolo. L’imminente riunione a Pechino (19 e 20 luglio) del Forum on China-Africa Cooperation (Focac) offre l’opportunità per riesaminare questo tema, tanto importante quanto controverso. La crisi finanziaria ed economica ha scombussolato gli equilibri africani, rinforzando il ruolo della Cina (e in misura minore delle altre economie emergenti) e spingendo governi e imprenditori a rivedere le proprie strategie. Nel 2011 l’Africa ha assorbito il 3,85% dell’export cinese (2,3% nel 2003, anche se aveva raggiunto il 4% nel 2009 nel pieno della crisi in Occidente) e ha generato il 5,4% dell’import cinese (dal 2% nel 2003).
La Cina è, dal canto suo, diventata un partner ancora più importante per l’Africa. Nel 2003 acquistava il 4,1% dell’export africano, nel 2010 l’11,8%. Pechino è ormai il primo partner di Paesi esportatori di petrolio come Sudan e Angola, ma la sua importanza cresce ovunque, anche laddove Taiwan è ancora riconosciuta come la legittima Cina (in Burkina Faso ad esempio) oppure in Africa dell’Ovest, dove le reti commerciali post-coloniali sono più forti. Ma le esportazioni rimangono superiori alle importazioni: nel 2011 il disavanzo cinese con l’Africa è stato di 201 miliardi di dollari. All’effetto diretto si accompagna quello indiretto: l’esplosione della Cina traina con sé i corsi delle materie prime africane. Non a caso, anche se la quota della Cina è aumentata, l’Africa esporta sempre di più in tutto il mondo.
Gli investitori sono stati altrettanto attivi. Soprattutto nel rifornirsi di materie prime, dato che il grande timore di Pechino resta l'interruzione degli approvvigionamenti sul mercato nel caso di un conflitto con l’Occidente. Ma anche nel produrre, in Africa, con tecnologie meno care di quelle occidentali e più adatte alle circostanze locali. Nella maggior parte dei casi si tratta di attività di assemblaggio, per esempio di motocicli e autoveicoli, e di trasformazione di prodotti primari locali. Inizialmente concentrata soprattutto nei Paesi sub-sahariani, la presenza cinese sta crescendo anche in Nord Africa.
Queste attività si svolgono sempre più spesso in zone economiche speciali che stanno sorgendo un po’ ovunque. Secondo Deborah Bräutigam, ce ne sono in Zambia, Egitto, Nigeria, Mauritius, Algeria e Etiopia. Senza dimenticare i servizi: un esperimento poco noto sulla lunga strada che porterà alla piena convertibilità dello yuan è l’apertura, ad agosto 2011, del primo bancomat in valuta cinese presso la filiale di Bank of China di Lusaka.
Crisi politiche hanno interessato Paesi cruciali per gli interessi economici della Cina, ma anche dell’Occidente. In Sudan l’impossibilità di risolvere il conflitto tra Nord e Sud ha portato, nel 2011, alla partizione del Paese, dopo un referendum che ha messo a dura prova la politica cinese di non interferenza. Pechino ha saputo ingoiare con classe un boccone forse amaro, diventando, per Juba, un partner importante tanto quanto per Kartoum.
La primavera araba ha avuto anch’essa implicazioni importanti per la Cina, non solo politiche. Da un lato l’evacuazione in urgenza di 34.000 cittadini cinesi dalla Libia ha mostrato che le imprese cinesi sono ancora impreparate nel valutare la portata dei rischi della globalizzazione. Dall'altro, l’elezione in Zambia di un candidato anti-cinese, Michael Sata, ha messo in evidenza un’altra faccia rischiosa del dinamismo delle relazioni sino-africane - nonostante egli abbia, in seguito, adottato un’attitudine conciliante. Lungi dal farsi impressionare, la Cina ha incrementato ulteriormente le missioni di alto livello, anche in Paesi fragili come lo Zimbabwe, oltre ad aver sostenuto l’ingresso del Sud Africa nel club dei Brics, avvenuto al vertice di Sanya nel 2011.
La crisi, in compenso, ha fatto sorgere dubbi sulla capacità dell’Europa di difendere i propri valori e interessi in Africa. Si è addirittura assistito al paradossale intervento di un Paese africano, l’Angola, in soccorso all’antica potenza imperiale, il Portogallo. Ma questo non vuol dire che l’Europa sia rimasta a guardare. Dopo la corsa all’Africa dei massimi dirigenti europei nel luglio scorso, nel 2012, anche l’Italia si è desta: visite del Presidente Napolitano in Tunisia, del Presidente del Consiglio in Libia ed Egitto, del Ministro degli Esteri in Etiopia e Mozambico.
Se la crisi ha dato ulteriore vigore alle relazioni economiche sino-africane, che dire dei dubbi sulla loro efficacia come strumento per la crescita? Le cancellerie occidentali, dopo aver manifestato crescenti preoccupazioni di natura politica ed economica, hanno dovuto ammettere che la realtà è più complessa. Certamente la Cina non ha la bacchetta magica per risolvere i problemi del sottosviluppo africano – dall’istruzione alle infrastrutture, dai conflitti alla sanità – ma non è neppure l’orco che ostacola l’applicazione di soluzioni ideate a tavolino in qualche think tank del Nord. Come altri nuovi protagonisti, la Cina sostiene di fornire non aiuto pubblico allo sviluppo, bensì cooperazione internazionale. Il che significa sia porre maggior enfasi sulla costruzione di infrastrutture, sia considerare i crediti pubblici alle esportazione tra i flussi destinati alla cooperazione. Come sempre quando si parla di petrolio, ci sono episodi poco chiari, ed è noto che Pechino non impone condizioni politiche o di governance al proprio intervento, se non il rispetto della One-China policy. Ma, nel complesso, l’intervento cinese sembra seguire logiche non diverse, e magari anche più proficue, di quelle dei donatori tradizionali.
La Cina continua a offrire prospettive interessanti all’Africa, ma l’Europa può, e deve, giocare la sua parte. L’importante è continuare il dialogo – esemplare in questo senso quello avviato dalla Fondazione per la collaborazione tra i Popoli – per garantire la coerenza dei diversi interventi, costruire sinergie e adattarle alla dinamicità della globalizzazione.
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