La “bolla” cinese. Dal novembre del 2011 la Cina è percorsa da una serie crescente di proteste su due tematiche fondamentali, il rispetto dei diritti umani e la questione tibetana, a cui le autorità cinesi hanno risposto con notevole rigidità. L’orientamento del governo è stato avvertito anche in occasione della recente visita (1-3 febbraio 2012) del cancelliere tedesco Angela Merkel, caratterizzata da un rafforzamento della censura: alla Merkel non è stato consentito effettuare un colloquio con l’avvocato dissidente Mo Shaoping (a cui è stato impedito di recarsi presso l’ambasciata tedesca di Pechino), è stata cancellata l’annunciata visita nella redazione del quotidiano Nanfangzhoumo, considerato critico nei confronti del governo, ed è stata sottoposta a severi controlli la trasmissione di immagini relativa all’incontro di Merkel con il vescovo cattolico di Guangzhou, Mons. Giuseppe Gan Junquiu. Le critiche rivolte dalla comunità internazionale rispetto alle chiusure del regime cinese non hanno fatto dimenticare la ragione principale del viaggio ufficiale della Cancelliera in Cina (il quinto dal 2005), dedicata principalmente alla crisi economica. La Merkel ha chiesto al premier Wen Jiabao di aiutare il Vecchio continente a superare la crisi e consolidare l’eurozona, ottenendo tuttavia una risposta interlocutoria. Mentre Pechino valuta l’opportunità di un maggiore coinvolgimento nel Fondo europeo di stabilità finanziaria, l’Ue non sembra in condizione di far sentire la propria voce di fronte al fermento sociale che sta agitando alcune aree del paese.
In particolare nel novembre del 2011 sono state due proteste nella ricca regione meridionale del Guangdong ad attirare l’attenzione del governo oltre che dei media e dei blog cinesi (tra cui il più popolare è Weibo). La prima si è verificata a Dongguan, dove settemila operai dell’impresa taiwanese della Yu Cheng (nota per la produzione di scarpe sportive destinate a brand mondiali come Adidas e Nike) hanno protestato contro il licenziamento di una decina di manager e la minaccia di taglio dei salari. I manifestanti si sono diretti alla sede della rappresentanza delle autorità centrali presso la città per chiedere l’intervento del governo e, dopo una serie di scontri con la polizia in cui sono state ferite decine di persone, la direzione dell’azienda taiwanese ha ipotizzato lo spostamento dell’impianto produttivo nello Jangxi, acuendo le proteste a causa dei più bassi salari percepibili dagli operai in questa regione rispetto a quelli elargiti nel Guangdong.
La seconda ondata di proteste si è verificata nella città di Wukan dove, secondo alcuni media cinesi, circa cinquemila persone si sono riunite per protestare contro i presunti brogli elettorali nelle consultazioni locali. Per la prima volta i manifestanti hanno inveito esplicitamente contro la “dittatura del regime comunista”. Alcuni blog cinesi hanno dichiarato che alla manifestazione hanno preso parte oltre diecimila persone. Rispetto a questa seconda rimostranza il governo centrale ha adottato la “linea morbida” inviando una task force con il compito dichiarato di ascoltare le ragioni dei manifestanti e valutarne la fondatezza. Tuttavia i dimostranti si sono dichiarati insoddisfatti a questo provvedimento soprattutto perché inefficiente in merito alla spinosa questione dell’espropriazione delle terre effettuata, secondo i dimostranti di Wukan, dai dirigenti locali che venderebbero agli imprenditori edili privati buona parte dei terreni espropriati dietro pagamento di tangenti. In questo modo i costruttori privati cinesi risponderebbero all’alta domanda del mercato immobiliare nazionale, che è in notevole espansione e, secondo alcuni esperti internazionali, ormai all’interno di una “bolla” speculativa pericolosamente prossima all’esplosione.
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