Il voto amministrativo del 2016 sarà un test rilevante per un sistema partitico che, andando verso la stabilizzazione del tripolarismo, potrebbe regalarci ancora a lungo competizioni incerte e grandi sorprese. Ma non sfugge il fatto che le elezioni contestuali nelle quattro principali realtà metropolitane del Paese, sette capoluoghi di regione e ben tredici città con oltre centomila abitanti, costituiranno soprattutto un’occasione per fare il punto sulla competitività dei partiti – vecchi e nuovi – sul piano del governo locale. Quali saranno i candidati del Pd di Renzi a guidare le città, e come verranno selezionati? Con quale squadra il centrodestra deciderà di scommettere sul proprio futuro? E il Movimento 5 Stelle, oramai deciso ad abbandonare la veste di setta dei seguaci del fondatore, troverà adeguate personalità per passare, come si dice, dalla protesta alla proposta?

L’incertezza sugli esiti, ma in qualche misura anche sulla natura della competizione per il governo delle città è collegata alla chiusura di un ciclo fortunato di venti anni di elezioni dirette di sindaci e presidenti di provincia. Lo stesso ventennio, connotato dal berlusconismo, che invece, ha visto fallire la stabilizzazione di un sistema politico efficace e responsabile. Il ciclo si è chiuso, come sappiamo, con la semplificazione del numero di cariche demo-elettive, lasciando sul campo la figura del sindaco come unico protagonista del livello politico sub-nazionale. D’altronde non vi è dubbio che il sindaco sia stato percepito per tutto questo tempo come uno degli attori forti del cambiamento, e una istituzione ancora capace di incassare notevole popolarità. Anche recentemente, un’indagine Swg-Anci rilevava fiducia ancora maggioritaria nei comuni e nei sindaci. Non è tuttavia difficile scorgere i segnali di un declino anche della fiducia anche verso le istituzioni territoriali e verso lo stesso sindaco: la preoccupazione per la qualità della classe dirigente ha infatti intaccato anche la sfera del governo locale, la cui immagine non è uscita certamente immune da responsabilità nell’ultimo round di scandali ed episodi di mala-amministrazione.

Vi è un secondo elemento di incertezza che si lega alle elezioni locali dell’anno venturo: che tipo di personalità e quali “ruoli” si aspettano gli italiani dai futuri sindaci? La già menzionata ricerca Swg sottolinea la crescente importanza delle competenze da “puro amministratore locale”: è necessario garantire, secondo i rispondenti, sindaci capaci di progettare il futuro delle città e di innovare le politiche locali dopo il brusco rallentamento determinato dalla crisi. Tuttavia, gli stessi intervistati dicono che i sindaci devono avere un ruolo importante anche nella politica nazionale.

Si tratta di un punto di non facile interpretazione. È evidente che gli italiani si aspettano una partecipazione attiva dei sindaci alle scelte politiche cruciali. Questo evoca il proseguimento del cammino già intrapreso sulla strada del federalismo municipale. Ma può anche significare una spinta verso un sempre più forte intreccio tra selezione dei sindaci e formazione della ruling class nazionale. Un percorso iniziato negli anni Novanta, quando gli esponenti del partito dei sindaci hanno costituito un nocciolo importante del ceto dirigente del centrosinistra, contribuendo prima alla nascita dei Democratici nel 1999 e poi al varo del Partito Democratico. Il legame meno stringente tra ceto dirigente locale e leadership nazionale nel centrodestra si spiega con due fattori strutturali: la natura fortemente verticale (e personalizzata) del partito di Berlusconi, e la dimensione periferica e non “metropolitana” di buona parte del ceto politico leghista. Tuttavia, sono stati molti i sindaci e gli assessori del carroccio a farsi luce nelle fila del partito. E molti amministratori locali di Forza Italia/Popolo della Libertà hanno mostrato una certa influenza, oppure sono stati selezionati ricorrendo a leader già affermati (sia pure del secondo cerchio) che prestavano il proprio nome alle sfide del governo locale.

Dunque, nei vent’anni passati abbiamo visto svilupparsi un interessante flusso bidirezionale di carriere politiche, con molti passaggi bottom-up, secondo la classica visione della politica locale come vetrina per i leader in erba, ma anche con clamorosi ritorni al territorio da parte di politici di rango, con conseguenti passaggi top-down, soprattutto verso alcune poltrone di sindaco. La comparsa di un presidente del Consiglio chiamato direttamente dall’esperienza di primo cittadino a Palazzo Chigi, senza nemmeno passare dal Parlamento, ha costituito il culmine di questa lunga fase di incubazione del potere dei sindaci, ma non meno importanti sono state le competizioni che hanno portato all’elezione di figure come Rutelli, Veltroni e Alemanno a Roma, Piero Fassino a Torino, e molti altri.

L’impressione che si ha, guardando in particolare alle competizioni nelle città importanti, è che questo sistema di interazione conosca oggi una fase critica. La vicenda Marino, comunque la si voglia giudicare un pasticcio per il Pd nazionale che getta ulteriore discredito su una istituzione sino ad oggi “virtuosa”, e l’incertezza che domina i processi di selezione dei candidati in città come Milano e Napoli, testimoniano della difficoltà con cui vecchi e nuovi partiti si muovono. Dopo la stagione dei confermatissimi esponenti di quel già menzionato partito dei sindaci, il centrosinistra si è trovato, in piena era delle primarie, a promuovere personaggi diversi tra di loro: abbiamo visto “outsider interni” capaci di scalare la posizione di leader locale, oppure “cardinali stranieri” che hanno risolto la questione vincendo le primarie di coalizione grazie alle spaccature nel partito maggioritario (i casi Zedda, Pisapia e Doria, per esempio) oppure ancora situazioni in qualche misura “miste” con candidati interni vincenti ma non necessariamente sostenuti da tutto il partito (nella diversità dell’appartenenza correntizia, la candidatura di Marino a Roma poteva essere assimilata sotto questo profilo a quella di altri futuri sindaci PD come ad esempio Emiliano a Bari).

Nel centrodestra sono emersi problemi di natura diversa, legati all’implosione del principale partito della coalizione, ma anche ai personalismi apparsi tra i sia pure isolati esponenti del governo locale leghista provenienti da realtà urbane significative e forti di una minima “massa critica” di consenso personale. Quello di Tosi è stato sotto questo profilo un esempio interessante.

Proprio la caduta del sindaco Marino sembra aver determinato il momento di affioramento di un problema oramai palese. Per questo le elezioni del 2016 dovranno dirci comunque qualcosa di nuovo, sia sotto il profilo degli esiti che relativamente alle capacità dei nuovi protagonisti del governo locale. Lo scenario di uno scontro a Milano tra due manager prestati alla politica cittadina (uno proveniente dal management pubblico, l’altro forse con un ruolo imprenditoriale) che si accollano il rischio di un potenziale fiasco elettorale, magari a tutto vantaggio di un cittadino semi-sconosciuto uscito dalla ruota dell’autoselezione nel Movimento 5 Stelle, costituisce una scommessa aperta: un best/worst case scenario sul quale un partito guidato da un leader capace di scommettere come Renzi, ed uno ancora influenzato da un leader che oramai ha giocato quasi tutte le sue carte come Berlusconi potrebbero decidere di scommettere. Ma ci sono altri problemi da risolvere: il caso Roma, la difficoltà di reperire figure capaci di evitare la frammentazione nelle rispettive coalizioni, l’ostinazione di figure già catalogabili come “passato” che in un momento di grande incertezza possono giocarsi nuove chance…

Gli scenari sono tanti. Tanti quanti le città nelle quali vale la pena di sperimentare nuove leadership. È difficile in questa situazione tornare a partiti di sindaci promettenti e determinati. Ma è anche difficile pensare che un sindaco del partito (o meglio, un sindaco imposto dalla leadership nazionale del partito) per quanto forte di competenze innovative, possa prevalere ovunque.