Parigi val bene un grand débat. Da molti mesi continua in Francia la protesta dei gilet gialli. Una protesta senza un obiettivo specifico ma espressione di un malcontento generalizzato, manifestato con modalità talvolta violente. Una spia che si è accesa nella società francese e di cui non è facile capire le cause. Così il presidente Macron ha lanciato l’idea di un grande processo di ascolto della società, attraverso il più imponente esperimento di democrazia partecipativa della storia, il cosiddetto grand débat national. Dopo tre mesi di consultazioni e incontri pubblici, questo processo si è concluso, almeno nella parte consultiva. Ed è ora di tirare le prime somme.
I media internazionali hanno dedicato poca attenzione all’iniziativa. Quelli italiani praticamente nessuna. Probabilmente perché i temi dibattuti erano interni alla società e alla politica francese, poco eccitanti (dalla pressione fiscale alle periferie) e dunque poco vendibili sotto il profilo della comunicazione. L’attenzione è stata maggiore in Francia, ma i commenti sono stati prevalentemente critici, se non sarcastici. In molti hanno visto il grand débat come un’operazione simpatia di Macron in vista delle prossime elezioni europee. Altri hanno ironizzato sulla pomposità di un’iniziativa che è servita solo a far emergere problemi già noti. E non poteva mancare chi, con straordinaria originalità, ha segnalato come il grand débat abbia rappresentato l’ennesimo spreco di denaro pubblico. Queste posizioni sono emerse anche nel dibattito parlamentare sul tema, svoltosi prima di Pasqua prima all’Assemblea nazionale e poi al Senato.
Già, la critica è sempre facile e a buon mercato. Ma quali potevano essere le alternative? Ignorare le proteste e magari reprimerle con la forza? O pensare di avere già le ricette per risolvere i problemi e imporle grazie all’occasionale maggioranza in Parlamento? I risultati del grand débat sono peraltro estremamente significativi sotto il profilo democratico. I contributi inviati alla piattaforma online sono stati quasi due milioni (1.932.884 per la precisione), cui vanno aggiunte quasi trentamila email e lettere. Gli incontri pubblici a livello locale sono stati oltre diecimila, e più di sedicimila comuni hanno aperto dei cahiers citoyens, procedure per i reclami e le proposte dei cittadini. I temi principali su cui i contributi dei cittadini si sono concentrati sono di grande complessità: fiscalità e spesa pubblica; organizzazione dello Stato e dei servizi pubblici; democrazia e cittadinanza; transizione ecologica. Il tutto accessibile online a chiunque, anche grazie a un prezioso lavoro di sintesi.
Davvero si possono leggere questi dati come una mera operazione di marketing politico del presidente e del governo? Certo, ora bisognerà vedere quale uso sarà fatto della mole di idee e proposte, molte delle quali tutt’altro che banali. La democrazia partecipativa ha il grande pregio di non sostituirsi al processo politico (rappresentativo o diretto che sia) ma di precederlo e di integrarlo. Non fornisce da sola una garanzia di risultato. Ed è quindi per questo facilmente criticabile da chi richiede soluzioni semplici e risposte immediate. Ma consente un dialogo con la società che nessuna consultazione elettorale o referendaria può procurare, e una raccolta di saperi diffusi che nessun esperto può fornire. Ciò non significa che non servano elezioni, referendum ed esperti. Significa semplicemente che non bastano. Così come non basta la democrazia partecipativa.
Sul punto la Francia ha raggiunto un livello molto più avanzato delle altre democrazie europee. Il grand débat è stato modulato sull’esperienza del débat public, che è la procedura decisionale utilizzata da ormai 25 anni per le principali opere pubbliche. E che ha impedito, ad esempio, che sul versante francese del cantiere della Torino-Lione vi fossero proteste come in val di Susa. Uno strumento che tutti si affrettano a imitare, in modo più o meno efficace, a partire da diverse regioni italiane (sulla legge pugliese si è recentemente pronunciata la Corte costituzionale con considerazioni interessanti). Certo non si tratta della soluzione di tutti i problemi, ma di un procedimento in linea con la complessità delle società contemporanee. Un supporto, non un surrogato della politica.
Minimizzare o persino deridere questo genere di strumenti invece di studiarli non aiuta ad aumentare la qualità della democrazia.
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