La laicità o la libertà di credere e di non credere. Troppo spesso la laicità francese è considerata ingiusta e intollerante, e il progetto del presidente Emmanuel Macron per contrastare l’islam radicale è assimilato a un’offensiva contro la religione musulmana nel suo insieme. Tentiamo di far chiarezza esaminando a grandi linee la realtà dell’esercizio della laicità in un Paese che non riconosce all’individuo, nello spazio pubblico, che la sua qualità di cittadino.
Il dibattito si è spesso focalizzato, in Francia e all’estero, su alcune leggi che riguardano esplicitamente le religioni e l’islam in particolare. Si tratta della legge del 2004 che proibisce alle donne musulmane di portare il velo nelle scuole, ma che proibisce nel contempo l’ostentazione di qualsiasi altro segno di appartenenza religiosa, come la croce e la kippah. La legge del 2010 non autorizza il velo integrale nello spazio pubblico, perché celando il viso impedisce il riconoscimento della persona. Il dibattito prima e dopo l’adozione di queste disposizioni fu vivace, ma esse non hanno altro scopo che d’imporre il rispetto della laicità a tutte le religioni. Se l’islam è più visibilmente interessato, non lo è in quanto tale, ma perché le sue frange radicali rivendicano e impongono ai fedeli, e alle donne in modo particolare, l’ostentazione nello spazio pubblico dei segni di appartenenza confessionale.
A tal proposito, è opportuno insistere sulla realtà dell’offensiva dell’islamismo radicale per affermare il primato della Sharia sulla legge francese a partire dagli anni Novanta, offensiva illustrata recentemente dal caso di Mila, la ragazza minacciata di stupro, di morte e fisicamente aggredita per aver criticato l’islam sulla rete e ora costretta alla clandestinità («Le Monde», 3 ottobre 2020). Non a caso, la laicità è un pilastro fondante della Repubblica francese. Essa garantisce una libertà fondamentale, che non è solo quella di praticare la religione di propria scelta, ma anche di non praticarne alcuna, istituendo il «diritto di credere e di non credere». Come scrive Pascal Bruckner, la laicità «protegge le religioni e ci protegge dalle religioni». François Héran dopo l’assassinio di Samuel Paty ribadisce: «la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948) afferma il diritto di cambiare religione o di cessare di credere: ed è per questa ragione che l’Arabia Saudita ha rifiutato di sottoscriverla» (Lettre aux professeurs d’histoire-géographie, «La vie des idées», 30 ottobre 2020).
In dicembre si è aperto in Parlamento il dibattito sul progetto di legge mirato a combattere il «separatismo islamico». Il nemico da combattere, secondo il presidente Macron, non è l’islam ma «un progetto cosciente, teorizzato, politico-religioso di creare una contro-società le cui manifestazioni concrete sono la descolarizzazione dei bambini, lo sviluppo di pratiche sportive e culturali comunitarizzate come pretesto per insegnare principi non conformi alle leggi della Repubblica, quali la negazione dell’uguaglianza tra uomini e donne, della dignità umana». Ed è così che il separatismo raggiunge il suo intento: «rifiutare la libertà d’espressione, la libertà di coscienza, il diritto di blasfemia. È così che a poco a poco conduce alla radicalizzazione».
Ma il progetto ha anche una componente autocritica: lasciando che interi quartieri si trasformino in ghetti, in concentrazioni di popolazioni secondo le origini geografiche e gli ambienti sociali, in nidi di miseria e di difficoltà, la Repubblica, ammette Emmanuel Macron, non ha mantenuto la sua promessa. Non sorprendentemente, il nuovo impegno politico di porre rimedio a questo stato di cose è stato immediatamente criticato come insufficiente. Le critiche si sono concentrate sulla politique de la ville applicata alle periferie urbane. Mentre i responsabili della gestione di questa politica chiedono di potenziarla, antropologi e sociologi ne evidenziano i limiti: migliorare il destino dei giovani dei «quartieri» implica dare loro la possibilità di uscirne. Non c’è mobilità sociale senza mobilità spaziale: disfare i ghetti significa aprire le città. La sfida non è solo urbanistica, ma economica e sociale: si tratta di far ripartire l’ascensore sociale rimasto fermo da troppo tempo. Ma nel contempo bisogna ostacolare sia le discriminazioni che chiudono le porte dell’impiego e della promozione professionale, sia le costrizioni religiose e culturali che impediscono l’emancipazione, soprattutto femminile, dalla famiglia e dalla comunità d’origine.
Combattere gli ostacoli religiosi all’emancipazione sociale fa dunque parte degli obiettivi che dovrebbe perseguire una democrazia. Ora, nell’arsenale di strumenti volto ad aprire l’orizzonte di ogni cittadino, rientra, non ultima, la critica della religione. Il diritto francese ne consacra la legittimità, motivando così, spesso, il dissenso nei suoi riguardi. È il caso di opinioni che invocano l’offesa per giustificare il limite della libertà d’espressione. La caricatura, specie quando è cruda come negli ultimi «Charlie-Hebdo», è allora considerata un insulto alla religione, quindi alimento di conflitti e violenza. La verità è tutt’altra.
Il diritto francese distingue l’insulto al credente e l’ingiuria alla religione. Il primo è reato, il secondo no – così per esempio la richiesta di condanna di associazioni musulmane contro gli epigrammi del romanziere Michel Houellebecq, fu respinta dai tribunali. La cultura anglosassone, ma anche italiana, può ammettere la critica alla religione, a volte più che giustificata nel caso della Chiesa cattolica, ma non la satira. Eppure la satira, spesso veemente, discende dalle Lumières, è figlia del 1789, dell’ostilità a un clero ancien régime, è legata alla decristianizzazione profonda della Francia lungo i due secoli successivi. La caricatura religiosa, il diritto di blasfemia vengono da lì, così come discendono dai Diritti dell’uomo sanciti dalla Rivoluzione francese i principi di tolleranza e libera espressione delle opinioni. La loro portata è universale e dovrebbe essere considerata come tale da tutte le democrazie. Certo, la bestemmia può offendere, ma offende solo chi vuole considerarsi offeso. Ognuno è libero di comporre o no caricature religiose, di guardarle o no, di sentirsene offeso o no. Ma nessuno è libero di perseguitare chi pensa, legge, disegna, diversamente da sè. Nei confronti di questo pilastro fondamentale delle nostre democrazie non ci sono compromessi possibili.
Riproduzione riservata