Le società in rivolta e il dilemma di Durkheim. Parigi è ferma o quasi da giorni, a causa dello sciopero di tutte le categorie, ma in particolare dei trasporti pubblici, contro la riforma delle pensioni abbozzata dal governo – uno dei punti importanti del programma di Macron. Sono scese forse 100.000 persone per le vie di Parigi, e 800.000 si calcola si siano mobilitate in tutte le città francesi. Semmai si farà, questa riforma sarà scaglionata in molti anni – questo è già previsto, come è previsto che il governo ne discuta ancora a lungo con i rappresentanti, si diceva una volta, dei corpi sociali. Che qui ci sono ancora, o ci sono un po’ più che altrove. E questo, qualunque sia il giudizio del lettore su Macron, una cosa la mostra chiaramente: che sia lo Stato sia la società in questo Paese non si concepiscono affatto come entità liquide, come palazzi che ospitano furtivamente bande effimere e litigiose, come da noi: ci sono impegni, almeno dialettici e di confronto anche duro, presi da entrambe le parti, con tempi lunghi e temi larghi, e dunque spalle e cuore per sostenerli. Niente tweet e annunci-lampo, niente manine notturne in decreti improvvisi, e neppure sardine dolcemente canore: ma confronto di progetti di società, in questo caso abbastanza concreti nelle loro divergenze. Come spiega anche Piketty su “Le Monde” dell'8 dicembre.
Chiedo perdono, allora, di legare a questa occasione una riflessione di cui mi dà spunto un testo del filosofo Bruno Karsenti, che compare in un suo libro del 2006, La société en personnes. Etudes durkheimiennes. Era questo plurale che mi aveva allettato – si sa che Durkheim fondò la sociologia francese al prezzo a mio avviso salatissimo di fare della società un soggetto collettivo o una persona sovraordinata, con la scusa che il tutto non si riduce alla somma delle parti. Una mossa che in un solo colpo sembra spazzare via l’individualismo metodologico ma anche quello morale e quello ontologico, gettando cupe inquietudini nell’anima di chi tema l’idolo sociale (Simone Weil) più ancora dell’io detestabile: tanto che ho sempre fatto una certa fatica a capire come mai l’ontologia sociale, questa disciplina filosofica che vuole dare le fondamenta alle scienze sociali, faccia così gran conto del principio olistico durkheimiano.
Ma forse, avverte Karsenti, sbagliavo. Bisogna sapere che esiste un “dilemma durkheimiano”, che è la forma sociologica della dicotomia fatti/valori, o del cosiddetto dilemma della metaetica: che cosa sono i valori, che tipo di proprietà sono delle cose che qualificano come beni? Se sono proprietà reali o naturali perdono il loro potere normativo – perché dai fatti non si possono derivare norme. Ma se per conservarlo le stacchiamo dai fatti, dove le mettiamo? Nel cielo di Platone? Strane e sospette entità diventano, e poi cosa ce ne facciamo in terra?
Questo dilemma Durkheim lo ritrova nel suo audace tentativo di sostituire la filosofia morale con una scienza dei costumi (moeurs), che naturalmente riduce i giudizi di valore a fatti essi stessi, fatti della mentalità e della cultura di una data società. Bene, e allora il dilemma dov’è? Dipende dal fatto che Durkheim, paradossalmente e a suo modo, vuol restare anche kantiano. L’utilitarismo gli pare un’etica meschina, basata sull’idea che anche la persona collettiva sia in primo luogo preoccupata di fare i conti e calcolare le conseguenze dell’agire in modo razionale, soprattutto rispetto al budget o alle risorse date: ma non è affatto così. La vita umana langue senza azione, ma solo la società fa crescere, differenzia, moltiplica e articola le possibilità d’azione degli individui. Ho un bell’interessarmi a Platone se poi non so a chi insegnarlo, o amare la musica se non ci sono sale da concerto. Una società vive tanto più sana e prospera quanto più si moltiplicano, con la complessità funzionale e la divisione del lavoro, le possibilità di azione e interazione di ciascuno. In effetti a Parigi, per dirne una, ho contato finora una cinquantina fra università e centri di ricerca, ma sono solo quelli di cui ho sentito parlare. Su una sola via trovi quattro o cinque cineteche, per dire quanta azione può dispiegarsi anche come beato otium (in cineteca).
Qui, capirete, primo colpo al cuore: qual è la società europea più immobile e stagnante, con la crescita ferma da almeno vent’anni, con le possibilità d’azione di figli giovani e fratelli maturi che si riducono di giorno in giorno? Dove la sfiducia nelle proprie capacità e nei propri strumenti, o semplicemente l’abitudine all’insuccesso e all’inutilità, hanno raggiunto perfino nei pubblici funzionari punte di parossismo tale che di fronte all’ultima alluvione, a Venezia, dove comunque non poteva andare peggio, nessuno ha osato azionare il Mose –quel mostro sottomarino costato più di tutti i tesori della Serenissima – almeno per vedere se funzionava?
L’agire per crescere e moltiplicarsi nella circolazione di una cultura ha bisogno come del pane di regole certe e chiare, in particolare di regole universali o morali. I doveri di ciascuno sono completamente indifferenti, come in Kant, al contenuto dei valori e dei fini dell’azione: questi cambiano con le società e le culture, il loro livello di sviluppo eccetera. Quello che è invariante è il dovere per il dovere, come in Kant: e come fa a motivare la gente? Qui scatta la molla che scioglie il paradosso: c’è un piacere sui generis, nota il fenomenologo Durkheim, a compiere il proprio dovere, proprio come si respira meglio se si hanno ideali e la vita ha un senso. Questo piacere non ha nulla di edonico, di auto-interessato, di egotistico. È un piacere che non sui confonde col gusto: fare il proprio dovere è desiderabile anche indipendentemente dall’ineluttabilità della sanzione sociale – Durkheim parla addirittura di umiliazione – che stritola chi viola le regole.
E qui naturalmente il cuore si arresta un’altra volta. Regole certe. Sanzioni ineluttabili…. A Umberto Bossi hanno addirittura concesso una inutilissima, incomprensibile grazia, ancorché colpevole di vilipendio al presidente della Repubblica: e non so se ricordate, era quello che, prima che un suo delfino diventasse nazionalista sovranista, non diciamo per carità di patria che cosa voleva fare della bandiera. Pubblicamente. Qual è il Paese di tutti gli abusi e i soprusi prontamente sanati da condoni e perdoni?
Ma che cos’è infine questo piacere di fare il proprio dovere? Il dovere è pesante, a volte sfinisce. La corda al collo della sanzione sociale ti segue sempre. Eppure attrae, come fosse vero che la disciplina copre di onore chi ne è capace fino al sacrificio. Cos’è questa ambivalenza, questo oscillare fra timore e amore? Ecco: l’ambivalenza è la natura del sacro. Con buona pace di Comte – pensa Durkheim – nessuna società si regge senza religione. Certo, il sacro si è spostato dal cielo alla società. Alla fine, però, il misterioso rapporto di partecipazione è rimasto lo stesso. È la società che sacralizza l’individuo, perché ne fa una Persona. Un individuo dotato di una dignità divina, perché è il modo stesso in cui la società – la fonte di ogni possibile – esiste. La società in persone. Individui capaci di trascendersi in quel surplus di vita che la società offre loro, lei che è più di loro solo se …. loro ci stanno. Naturalmente questo surplus un po’ si deve vedere: non è che un venditore di lattine di birra abbia necessariamente panache sufficiente per fare il presidente della Repubblica, bisognerà in ogni caso aver studiato molto ed essersi distinto in un duro cursus honorum, a proposito di attività e di doveri. Alla fine, il nome di questo sacro dal volto umano e dal logos francese è la morale républicaine. È la “fede laica” difesa dagli intellettuali progressisti della Terza Repubblica.
Vi chiederete se questo “sacralizzare” gli individui in quanto persone sociali non sia nel caso limite sacrificarli, perché poi il mestiere del sacro è proprio questo, e nella parola “sacrificio” dobbiamo sentire proprio l’ambivalenza originaria. Il che, personalmente, mi ha sempre fatto considerare con un certo orrore (e tremore) l’ipotesi che il sacro abbia qualcosa a che vedere con l’etica. Sarà più alto o più abissale, ma certo tutt’altra cosa – qualcosa che somiglia di più alla muta ricerca, da parte di Giacobbe, del luogo sul monte dove accendere le fascine per Isacco, e a me dà un lieve brivido. Infatti, non dico che Durkheim mi abbia convinto, e neppure che abbia risolto il dilemma durkheimiano.
Però Durkheim fu dreyfusard, e questo ci dice che in definitiva il suo kantismo era per un verso molto più kantiano di quello che lui stesso potesse ammettere. E tuttavia è per l’onore della Repubblica e del suo esercito che un solo individuo isolatissimo, Colonel Picquart, finì per svergognare l’omertà sociale (dei militari). E Durkheim che, come Zola, dovette essere uno dei suoi sostenitori, scrive anche che l’ideale non è la società come esiste di fatto, ma quella che verrà. Se le norme non sono “più in rapporto con l’ideale”, allora la società “vera” è nella rivolta e non nell’obbedienza.
Il pensiero torna agli 800.000 in piazza, alle strade affollate di cineteche e di ragazzi, ai palazzi della scienza, della ricerca, dell’arte, alle librerie ancora affollatissime ai tempi di Amazon, allo Stato che trasferisce nella banlieu una delle più prestigiose sue istituzioni universitarie, il che porterà molta azione e interazione e – presumibilmente – un po’ di rivolta anche lì. Mentre il cuore, pesto come un boxeur, torna a guardare malinconicamente il Paese dell’immobilità e dell’anomia, o dell’inazione crescente e della crescente eccezione alla regola. Certo, poi bisognerebbe capire quale società vera parli in noi quando suggerisce la rivolta, e come la distinguiamo dal conformismo forcaiolo o dalla vandea. Come si fa a praticare un po’ di expertise morale o di analisi del sacro, chi ne ha titolo “in noi”. Ma possiamo chiedere a un sociologo, sia pure di genio, di risolvere veramente il dilemma, che è il nostro piuttosto che il suo?
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