La questione salariale è la grande assente del dibattito politico. Una quantità ormai debordante di analisi, provenienti dalle sedi più autorevoli, dall’Ocse alla Banca d’Italia, dimostra il calo costante del potere d’acquisto dei salariati. Negli ultimi anni in Italia si è verificato uno spostamento “rivoluzionario” di capacità di reddito dal settore del lavoro dipendente a quello del lavoro autonomo. Grazie alla gestione tremontiana del changeover tra lira ed euro, coloro che “potevano fare i prezzi” hanno accumulato uno straordinario vantaggio competitivo sui percettori di redditi fissi. E negli anni successivi nulla è stato fatto per riequilibrare il potere d’acquisto dei salariati. Con il risultato che già prima della crisi operai e impiegati hanno visto erodere significativamente il loro livello di vita. Poi, scoppiata la crisi, tutti sono stati coinvolti: l’impennata dei fallimenti fa presumere che questa volta sia stato colpito duramente anche il lavoro autonomo, in tutte le sue forme; ma l’ondata di licenziamenti, riduzioni dell’orario di lavoro e cassa integrazione, dimostra che il lavoro dipendente non è stato risparmiato, tutt’altro.
Certo è che questo Paese sembra paralizzato di fronte alla crisi: nessun provvedimento significativo del governo – troppo impegnato nei lodi Alfano e nelle case di Montecarlo –, nessuna rumorosa e corale protesta sociale, nessuna iniziativa delle parti sociali. Un Paese immobile, anche di fonte al precipizio. Un immobilismo per molti versi pericolosissimo. Perché se si volge lo sguardo all’indietro, alla recente storia nazionale, si vede che dopo fasi di stasi e apparente quiete la società esplode. Finora le tensioni e le sofferenze prodotte dalla crisi sembrano essere soprattutto introflesse, rivolte non contro l’esterno ma contro il soggetto stesso. Solo così si spiegano i tanti suicidi per mancanza o perdita di lavoro, ivi compresi artigiani e piccoli imprenditori falliti. È un lento stillicidio che però non fa quasi notizia. Qualche trafiletto nelle pagine interne, e nulla più. Casi umani, insomma; non casi sociali. Si tratta invece del sintomo di un disagio collettivo di proporzioni, ed esiti, drammatici. Un disagio che oggi accomuna lavoratori autonomi e dipendenti, benché questi ultimi siano, da tempo, i più penalizzati. Se invece di produrre effetti autolesionisti le tensioni vengono estroflesse, rivolte verso l’esterno, possono prendere due forme: quella ribellistica e violenta, tipica della storia d’Italia e di cui il terrorismo rosso e nero costituiscono la più recente espressione; e quello della protesta sociale collettiva, sia organizzata sia spontanea. In questo quadro di compressione decennale del lavoro salariato e di immobilismo sociale, la ripresa di conflittualità sindacale è un fattore positivo. Da un lato perché alcune categorie “maltrattate” riprendono voce, dall’altro perché la frustrazione e anche la rabbia viene incanalata in forme controllate e socialmente accettabili. Per tutti questi motivi la riuscita della manifestazione della Fiom, al di là dei contenuti specifici e dei risultati concreti che produrrà, dal punto di vista sistemico è una buona notizia. Anche se il lavoro dipendente, e quello operaio in particolare, continuerà ad essere compresso, almeno c’è la speranza che la mobilitazione “classica” incanali e contenga la frustrazione di un decennio abbondante di “maltrattamento”. Ma il problema dei salari più bassi tra i Paesi industriali avanzati rimane.
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