Il provocatorio annuncio economico, apparso su «Il Giorno» il 12 gennaio del 1969 e destinato a scatenare polemiche, era stato pubblicato in forma anonima dal giovane ma già affermato storico Paolo Prodi. In quei giorni si poteva constatare il sostanziale fallimento di quello che si sarebbe rivelato il più profondo e meditato tentativo riformatore del sistema universitario italiano nell’età repubblicana, il d.d.l. 2314 presentato dal ministro Luigi Gui nel 1965 e mai approvato fino alla fine della IV Legislatura nella primavera del 1968. Ad affossarlo era stata, certo, la radicalizzazione del conflitto studentesco allora montante, ma aveva ampie responsabilità anche l’atteggiamento di chiusura conservatrice di gran parte del corpo professorale. Era stato soprattutto questo a deludere chi, come esponenti e pensatori della cultura cattolica riformatrice e democratica a cui Prodi si rifaceva, si era impegnato per anni sul tema del rinnovamento degli alti studi in Italia con incontri, pubblicazioni, e lavoro a volte dietro le quinte, a volte in prima persona nelle commissioni attivate dal Parlamento.
La provocazione di Prodi intendeva appunto rappresentare questo stato d’animo. Da un lato, essa era la presa di distanze da un modo di intendere la professione accademica come un universo separato dal resto della società, impenetrabile alle sollecitazioni di un mondo in continuo e rapido sviluppo. Dall’altro, costituiva la rivendicazione del ruolo positivo che l’intellettuale di professione, educato al tradizionale rigore della comunità degli studi universitari, poteva svolgere in una società in cui la sua figura non possedeva più il monopolio delle conoscenze specialistiche, ma era ancora in grado di produrle, maneggiarle e diffonderle. L’esigenza di una discontinuità nel modo di intendere la vita accademica nella complessa società contemporanea, insomma, non era separata dalla necessità di ribadire le ragioni che avevano condotto l’università a diventare, nel mondo occidentale, il luogo che custodiva, selezionava e certificava il sapere critico. Con questi orientamenti d’insieme lo studioso si trovò di lì a poco, per un po’ di tempo all’inizio degli anni Settanta, alla guida dell’ufficio studi del ministero della Pubblica istruzione, contribuendo ad alcune iniziative legislative che però non potevano più avere il respiro e l’impatto della proposta riformatrice del decennio precedente.
Oltre quarant’anni dopo, alla fine di un percorso riformatore dell’università stavolta riuscito come il ciclo di provvedimenti finanziari e istituzionali presi da Tremonti, Brunetta e Gelmini nel 2008-2010, Paolo Prodi tornava a raccogliere le sue riflessioni nel volume Università dentro e fuori (Bologna, Il Mulino, 2013). Si trattava di un momento in cui i timori di destrutturazione del sistema universitario e della comunità professionale degli studiosi che ne costituiva il cuore sembravano effettivamente avverarsi. Quelli che per la saggistica di settore degli anni Sessanta, che Prodi sicuramente conosceva, prima di tutto l’allarme lanciato da Clark Kerr sulla perdita di identità dell’istituzione accademica nella molteplicità di usi e di funzioni della multiversity, apparivano ancora pericoli evitabili, col nuovo millennio sembravano realizzarsi inesorabilmente.
Pur con le specificità proprie di un Paese sviluppato che viveva una crisi del proprio modello di produzione e di distribuzione, le riforme del 2010 erano il risultato di un percorso che riguardava tutto l’Occidente
Pur con le specificità proprie di un Paese sviluppato che viveva una crisi del proprio modello di produzione e di distribuzione della ricchezza come appunto era l’Italia, le riforme del tornante del 2010 erano agli occhi di un osservatore attento come Prodi il risultato di un percorso che riguardava tutto l’Occidente. Le istituzioni universitarie stavano progressivamente perdendo il loro ruolo di gestione della conoscenza più avanzata e del sapere critico per la collettività, determinato dalla possibilità del suo personale di porsi alla frontiera della ricerca e quindi di non poter trovare al di fuori di se stessa gli spunti per autoregolarsi e gli interlocutori per ogni sforzo progettuale. Le necessità obiettive di un ripensamento del ruolo degli alti studi accademici, dettate dalla sempre più pressante esigenza del mondo produttivo di avere accesso a forme di conoscenza scientifica e sociale a cui dare immediata applicazione e dall’assunzione di una dimensione di massa della didattica post-secondaria nella knowledge economy, erano sempre più spesso guidate da una politica che sottometteva alle sue esigenze l’alta cultura professionalizzata, trasformando le università sempre più in uffici di esecuzione di ordini provenienti dall’esterno.
La soluzione a queste sollecitazioni, invece, stava per l’autore nel titolo che egli avrebbe voluto dare al suo volumetto del 2013, poi sostituito perché considerato l’ennesima eccessiva provocazione: L’università come corporazione. Termine screditato nell’età contemporanea, soprattutto a seguito dell’esperimento corporativo fascista, e passato al linguaggio comune in riferimento a operazioni poco trasparenti di difesa ottusa dell’interesse particolare di una categoria, nell’ottica di più lungo periodo congeniale allo storico «corporazione» rimanda innanzi tutto a una realtà associativa fondamentale per lo sviluppo dei moderni rapporti sociali in Europa e soprattutto nelle città italiane, perché capace di imporre l’autonomia dei propri ordinamenti. Seppur con le modalità emerse nei moderni Stati-nazione, per Prodi questa autonomia autoregolatrice della componente universitaria doveva essere di nuovo orgogliosamente rivendicata, poiché proprio la sua crisi e la conseguente imposizione di vincoli giuridici e valutativi esterni stavano conducendo tanto a una crisi della qualità della conoscenza, quanto a una crisi del processo democratico, per il quale era necessario il contraltare del libero pensiero critico istituzionalizzato.
L’assunto fondamentale di Prodi era dunque l’esigenza che una comunità accademica ricompattata si facesse direttamente protagonista, senza l’interposizione di un intervento legislativo troppo rigido che rischiava di affidarsi a meccanismi falsamente compresi come automatici, per affrontare le sfide degli anni Duemila. Sfide, si è detto, innanzi tutto determinate dalla piena partecipazione degli atenei e delle loro funzioni alla società di massa. Un atteggiamento del genere non significava voler promuovere l’autoreferenzialità della comunità degli studi universitari, ma al contrario garantire gli strumenti per un dialogo proficuo con la collettività in cui la competenza di settore trovi il modo di esprimersi adeguatamente, ponendo nella giusta ottica, senza schematizzazioni fuorvianti o visioni così irrigidite del «merito» e della «valutazione» da sembrare quasi caricaturali, le esigenze di una buona gestione della conoscenza. Era stata del resto questa una delle interpretazioni più comuni dell’idea di «autonomia» che animava i dibattiti preparatori alla proposta Gui negli anni Sessanta, ossia, piuttosto che la frammentazione competitiva dei singoli atenei in una sorta di confusa autogestione, la possibilità per l’università nel suo complesso (espressa sul territorio e secondo funzioni differenti dalle varie sedi e dalle loro articolazioni) di non essere imbrigliata da normative esterne di stampo burocratico per confrontarsi con le istituzioni politiche, ovvero coi rappresentanti della volontà collettiva della società in cui e a vantaggio della quale la «corporazione» operava, da pari a pari.
Delle varie proposte che Prodi avanzava per affrontare "dall’interno" i problemi posti dal ricorso all’istituzione universitaria per una formazione di massa e per affrontare i problemi posti dalla tecnologia e dalle dinamiche sociali, non tutto appare pienamente ricevibile
Delle varie proposte operative che Prodi avanzava per affrontare «dall’interno» i problemi posti da un ricorso all’istituzione universitaria sempre più comune per la formazione superiore di massa e per affrontare i problemi sempre più complessi posti dalla tecnologia e dalle dinamiche sociali attraverso l’applicazione di nuovo sapere avanzato, a quasi dieci anni dalla pubblicazione del volume non tutto appare pienamente ricevibile. Ad esempio, l’idea che l’istruzione professionale superiore regionalizzata, allora da poco messa a punto in via sperimentale coi primi Istituti tecnici superiori, potesse diventare uno strumento per potenziare le capacità didattiche post-secondarie tenendo «separata» una massa di studenti diplomati dall’incontro tra insegnamento e ricerca di frontiera che caratterizzava per definizione il contesto universitario, è stata superata nei Paesi dove quest’esperienza ha radici più profonde dalla progressiva assimilazione di alta formazione professionale e primi livelli di studio universitario, a dimostrazione che con un’adeguata articolazione interna gli studi accademici possono preservare la loro qualità senza farsi esclusivi di fronte alle esigenze di massa. Ancora oggi colpisce, però, la lucidità con cui Prodi guardava a potenzialità e limiti degli Istituti tecnici superiori quando essi erano ancora solo un embrione, mentre ancora pochi mesi fa lo speechwriter del presidente del Consiglio ha sentito di poterli menzionare senza porsi il problema di chiarire a se stesso le differenze tra Its e Itis.
Al di là dei singoli spunti, l’eredità della riflessione di Prodi sull’università è, come detto, la più generale rivendicazione di un ruolo sociale definito, in termini appunto «corporativi», per i professionisti della conoscenza, ossia l’affermazione di un’identità culturale e di prassi operative condivise che la comunità accademica non può farsi attribuire dall’esterno, pena il rischio evidente di diventare strumento di interessi estranei, o peggio ancora di frantumarsi in mille diverse bande ciascuna alla ricerca al di fuori dell’università del sostegno istituzionale per partecipare alla gestione del potere, diventando così il campo di battaglia per la loro contrapposizione. Una minaccia che ha accompagnato strutturalmente la definizione istituzionale e funzionale dell’università in tutta Europa, ma che si è fatta davvero seria per l’Italia negli ultimi anni, in un contesto ideale in cui un annuncio come quello messo sul giornale da un giovane professore emiliano nel gennaio del 1969 passerebbe forse inosservato.
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