Orgoglio e paura non sono sentimenti in base ai quali possono essere prese decisioni ragionevoli. Questo vale per gli individui e a maggior ragione vale per le collettività, per gli Stati, in cui quei sentimenti possono essere aizzati tramite campagne mediatiche partigiane e irresponsabili.

Nel caso del referendum greco di domenica prossima è probabile che sarà la paura, non la ragionevolezza e l’autocritica, il principale ingrediente emotivo a sostegno del “sì”, della decisione di accettare l’ultima offerta dei creditori. E se sarà così, l’esito sventerà forse una crisi immediata – il default dello Stato – ma lasciando tra i greci uno strascico di recriminazioni profonde per essere stati costretti obtorto collo da poteri sovrastanti: non certo il miglior cemento per la costruzione di un’Europa unita. Se prevarranno i “no”, è probabile che a motivarli sarà un sentimento di orgoglio nazionale offeso – il peggior tipo di orgoglio in un’Europa che vuole indebolire il predominio emotivo dello Stato nazione – non la presenza di un progetto alternativo e ragionevole di mediazione tra le legittime pretese dei creditori e le ragioni di un popolo massacrato dall’austerità. Conseguenza, questa, di una politica europea dissennata e della quale non sono certo solo i greci a portare la responsabilità.

Una politica nella quale agli errori di costruzione della moneta unica si sommano, in condizioni di crisi aperta, passi falsi che potevano essere evitati. Come ha ricordato Wolfgang Münchau sul «Financial Times» di due giorni fa, è difficile giustificare il rifiuto dei ministri finanziari dell’Eurozona di estendere le misure di salvataggio per pochi giorni, fino all’esito del referendum. Ciò, da una parte, rende evidente il ricatto politico sottostante alla decisione: cari greci, sbarazzatevi di Tsipras e votate per un governo più “ragionevole”. Dall’altra, potrebbe non escludere l’esito che i greci votino “sì” ma siano ugualmente costretti a uscire dall’Eurozona: un esisto disastroso per loro stessi e per l’Europa.

Il caso greco è un caso limite, ma sono proprio i casi limite quelli che ci fanno capire la natura delle tensioni che attraversano la politica economica dell’Eurozona, a sua volta conseguenza del tentativo di anteporre un’unione monetaria alla costruzione di un nucleo di unione politica democratica. A tutti i Paesi dell’Eurozona è stata imposta la politica economica che ha avuto successo in Germania: un’imposizione criticabile, perché il successo tedesco è costruito su un modello socio-economico e su una specializzazione produttiva che è difficile imitare e la sua estensione a tutti i Paesi di un’area strettamente interconnessa è intrinsecamente contraddittoria. Non tutti possono trascinare la loro crescita mediante esportazioni, in specie quando è esclusa l’arma che a Paesi meno competitivi e istituzionalmente più fragili viene più facile adottare, la svalutazione della moneta.

I falchi dell’Eurozona, mostrandosi intransigenti e sottostimando le conseguenze di Grexit sul piano sistemico, sperano che la lezione inflitta ai greci dissuada altri Paesi in difficoltà a seguire il loro esempio e li induca a eleggere governi che non sfidino apertamente il Brussels consensus e l’ordoliberalismo di Berlino. Insomma, che sia la paura a prevalere, non solo in Grecia, ma anche in Europa. E se invece a prevalere fosse l’orgoglio nazionale, malinteso certo, ma abilmente alimentato da demagoghi e populisti in un elettorato nazionale che soffre per l’austerità?

Una situazione di crisi aperta, in cui giocano la paura e l’orgoglio, non è certo la situazione migliore per riflettere su una revisione dei trattati europei. Dovrebbe trattarsi di una revisione politicamente ambiziosa, in cui una concezione puramente nazionale di democrazia sia temperata da più forti elementi democratici a livello sovranazionale: solo così le richieste europee ai singoli Paesi, di conformarsi a criteri di politica economica anche molto incisivi e dettagliati, non verranno percepite come intrusioni sopraffattorie e antidemocratiche. Un modello di revisione approfondita e politicamente ambiziosa – incomparabile col deludente Rapporto dei cinque presidenti delle grandi istituzioni europee recentemente pubblicato – è contenuto nel libro di Sergio Fabbrini (Which European Union, Cambridge University Press, 2015) e ottimamente riassunto e commentato da Maurizio Ferrera, ne La Lettura del «Corriere della Sera» del 21 giugno scorso. Sono testi che consiglio: se non per altro, per comprendere come mai crisi simili a quella greca, a parte il folklore levantino, siano destinate a ripetersi se una seria revisione dei trattati non verrà intrapresa.

 

[Questo contributo riprende, in una versione leggermente diversa, l'articolo Orgoglio e paura: la falsa alternativa, pubblicato sul «Corriere della Sera» di oggi]