Colpisce lo scarto fra le tensioni profonde che stanno percorrendo l’Europa e la pervicacia nel non voler modificare, nemmeno su piccoli aspetti, l’impostazione delle politiche comunitarie di austerità.
La crisi sta incidendo a fondo sulla società europea. Lo vediamo bene in Italia. Grazie ad esempio ai più recenti dati dell’Indagine sui bilanci delle famiglie, condotta dalla Banca d’Italia, abbiamo la conferma di come non sia uguale per tutti, e colpisca in misura decisamente maggiore le fasce più deboli della popolazione. Non è difficile individuarne le cause: la mancanza di lavoro stabile e regolare, insieme alla forte riduzione degli ultimi anni dei già modesti interventi di carattere sociale e alle misure sulla fiscalità che hanno premiato i più abbienti a danno dei meno abbienti (riduzione della tassazione sul patrimonio immobiliare). Si sta creando una fascia di popolazione a rischio, sulle cui modalità di adattamento e sopravvivenza ben poco sappiamo. Ancora, i dati confermano un progressivo “scivolamento” verso il basso delle classi medie, alle prese con difficoltà a mantenere un tenore di vita consolidato: alle difficoltà del lavoro dipendente (primi fra tutti, gli insegnanti), già visibili da molti anni, si sono aggiunte quelle del lavoro indipendente (primi fra tutti, i commercianti). Crescono molto le disuguaglianze. Quali ferite stanno apportando queste dinamiche alla coesione sociale interna ai Paesi, in Italia e in Europa? Questa fondamentale domanda rimane senza risposta.
La crisi sta provocando crescenti rigurgiti di egoismo e nazionalismo. Quietatesi in Italia le tensioni secessionistiche (con il crollo, etico e politico, della Lega Nord), sono ben vive innanzitutto in Spagna (Catalogna) e nel Regno Unito (Scozia). In particolare, le conseguenze del possibile referendum scozzese potrebbero andare ben oltre quel Paese, aprendo una pagina del tutto nuova in Europa. Si rafforzano – come ben noto – partiti e movimenti populisti e nazionalisti che potrebbero, con il voto di maggio, incidere significativamente sul prossimo Parlamento. In Italia si fa a gara a prendere posizioni antieuropee e anti-euro, per intercettare il vasto voto di protesta: assai vasto, come già abbiamo visto nelle ultime elezioni. Colpisce il risultato del referendum svizzero di ieri: in un Paese solo sfiorato dalla crisi e con un’economia ben solida, per la prima volta si registra una maggioranza di votanti favorevoli a una proposta xenofoba.
Di fronte a tutto questo, l’ideologia dell’austerità salvifica rimane più solida che mai. Si arriva a interpretare la timidissima ripresa che si affaccia anche nei Paesi mediterranei come segno che tutto volge al meglio. Anche in Portogallo, ad esempio: un Paese dal quale (come ricordava recentemente in un bell’articolo su "Libération" Cristina Semblano, che insegna Economia portoghese a Paris-IV) sono emigrate negli ultimi anni cinquecentomila persone (su una popolazione di 10,5 milioni), con un ritmo che supera quello degli anni Sessanta. Anche per lavorare, a 2,06 euro all’ora in Belgio, come testimoniato da una recente “scoperta”. Come negli anni Sessanta fuggivano dalla miseria, dalla dittatura e dalla guerra coloniale, oggi i portoghesi fuggono dalla mancanza di presente e di futuro.
Colpisce lo scarto fra tutto questo (e tanto altro) e la convinzione, che è ideologica assai più che relativa alla politica economica (come ricorda benissimo Mark Blyth, nel suo Austerity. The history of a dangerous idea), che ciò che si sta facendo è l’unica soluzione giusta e possibile. È in corso invece un esperimento molto pericoloso, che sta mettendo a rischio gran parte di quel che si è costruito in Europa, con fatica, negli ultimi decenni.
@profgviesti
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