Immaginate una donna o un uomo inseguiti da un assassino che vuole ucciderli a causa del loro gruppo etnico, della loro nazionalità o della loro religione, o perché hanno espresso certe idee o fanno parte di un gruppo specifico di persone. Immaginate che, in fuga, quest’uomo – poniamo – bussi alla nostra porta, dopo essere entrato nel nostro giardino, e chieda rifugio e difesa dal suo persecutore. Probabilmente molti di noi lo accoglierebbero, se non altro per un po’. Immaginate ora che qualcuno bussi alla nostra porta fuggendo da un posto perché non ha casa, o lavoro, o non si può curare adeguatamente, e ci chieda di condividere il nostro tetto, il nostro cibo, i nostri agi. Anche tra coloro che avrebbero accolto il primo fuggiasco, alcuni di noi si rifiuterebbero di accoglierlo. Poniamo, infine, che gli assassini inseguano tante persone, e le inseguano sempre per motivi come quelli elencati sopra, e che le vittime vengano tutte, o in gran parte, a bussare alla nostra porta chiedendo rifugio e protezione. A quel punto molti di noi comincerebbero a chiedersi se il dovere di accogliere i fuggiaschi non abbia dei limiti, dopo tutto, e non bisognerebbe chiedere ai vicini di farsene carico, insieme a noi.
La cosiddetta «crisi» dei migranti e dei rifugiati non è molto diversa da queste situazioni ipotetiche. Né credo siano troppo diverse le nostre reazioni di cittadini dell’Europa occidentale. Il diritto internazionale esprime queste distinzioni e le idee morali che le sostengono: infatti, si riconosce agli Stati sovrani il diritto di regolare l’accesso di migranti economici alle loro frontiere ma non il diritto di respingere potenziali rifugiati – almeno quelli che sono tali nella definizione della Convenzione sui rifugiati del 1951, secondo cui è da considerarsi rifugiato chi fugge dal proprio Paese perché ha subìto, o teme ragionevolmente di subire, persecuzioni per ragioni come la propria etnia, la propria religione, la propria nazionalità, le opinioni che professa o la sua appartenenza a gruppi specifici. In questo quadro arriva l’accordo fra Turchia e Unione europea.
L’accordo prevede che siano riportati in Turchia tutti i migranti e i rifugiati che arrivano sulle isole greche (i rifugiati dovrebbero essere respinti dopo l’accertamento del loro status da parte delle autorità greche). In cambio, l’Unione europea farà due cose: in primo luogo, garantirà un finanziamento – inizialmente di 3 miliardi di euro – per l’assistenza ai rifugiati in Turchia; in secondo luogo, per ogni migrante irregolare proveniente dalla Siria – quindi per ogni potenziale rifugiato – un rifugiato siriano presente in Turchia verrà regolarizzato e ammesso in Europa, fino a un massimo di 72.000 rifugiati (qui i dettagli dell’accordo). Gli aspetti problematici già denunciati da molti sono che ai rifugiati non si riconosce il diritto di rimanere nel Paese dove arrivano, ma li si sottopone a un respingimento verso un Paese da molti ritenuto insicuro e non in grado di garantire procedure e processi certi e adeguati di riconoscimento dello status di rifugiato. Ma è un altro l’aspetto che qui mi preme sottolineare.
L’accordo smantella la distinzione fra migranti economici e rifugiati – in peggio, per così dire, equiparando i rifugiati ai migranti. Riprendendo l’analogia di partenza, l’accordo fra Turchia e Ue corrisponde al caso in cui, di fronte alla nostra porta, si presentano tantissimi fuggiaschi e noi non siamo in grado di distinguere tra chi fugge dagli assassini e chi dalla miseria. Abbiamo due problemi: da un lato, non vogliamo troppe vittime degli assassini alla nostra porta, perché avremmo scrupoli a gettarli fra le braccia del loro aguzzino, ma non vogliamo neppure accoglierli tutti; dall’altro, vogliamo liberarci, e una volta per tutte, della massa di fuggiaschi bisognosi, attirati nel nostro giardino dalla nostra ricchezza.
A quel punto ci viene un’idea. C’è quel nostro vicino, povero, trascurato e desideroso di essere riconosciuto alla nostra altezza. Basterà dirgli «se accetti che io mandi tutti i fuggiaschi da te, eccoti del denaro per gestirli – per rimandarli indietro. Se trovi fra loro chi fugge da un assassino, diccelo; un po’ di queste vittime le prendiamo noi; degli altri, non ne vogliamo sapere».
Una soluzione brillante, non c’è che dire. Peccato che questa soluzione non derivi dall’idea che, mentre siamo obbligati ad accogliere le vittime degli assassini, possiamo legittimamente mettere alla porta chi vorrebbe godere delle nostre ricchezze – cioè dalla distinzione fra migranti economici e rifugiati. Perché questa soluzione permette di non accogliere più tutti i rifugiati – tutte le vittime degli assassini – e di danneggiare positivamente i migranti – i fuggiaschi che cercano una vita migliore –, mandandoli forzosamente da un’altra parte, cioè deportandoli. È un po’ come se avessimo deciso di non accogliere né chi scappa dall’assassino, né chi cerca di vivere meglio, in prima istanza – salvo poi accettare di accogliere le vittime degli assassini, ma soltanto un po’, di certo non tutte. A parte il desiderio di togliersi intorno il problema il più in fretta possibile – e senza contare la campagna elettorale che percorre l’Europa – non c’è principio giuridico e morale fra quelli comunemente invocati che possa giustificare una condotta del genere. Né quella ipotetica che terremmo noi singoli cittadini, né quella – reale – adottata rapidamente al vertice europeo della settimana scorsa.
La filosofia che sottende l’accordo raggiunto con la Turchia è puro arbitrio. Le sue ragioni sono tutte politiche – tutte al di fuori del diritto e dell’etica.
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