Con l’introduzione dell’anticipo pensionistico (Ape) agevolato, il governo stima che nel prossimo biennio 50-60 mila lavoratori potranno andare in pensione senza penalizzazioni prima di raggiungere l’età prevista dalla legge. In aggiunta, anche l’Ape volontaria – che non dovrebbe essere eccessivamente costosa, grazie ad accordi nazionali con banche e assicurazioni – potrà spingere un certo numero di lavoratori maturi a rinunciare a una piccola quota di pensione per lasciare anticipatamente il luogo di lavoro, magari accedendo, grazie ad accordi aziendali, a forme miste fra pensione e part-time.

Queste misure derivano dalla legge di bilancio 2017 e sono molto opportune, vista l’evoluzione del mercato del lavoro. A differenza della percezione comune, l’Istat ci dice che nel 2016 gli occupati erano pressoché lo stesso numero rispetto al 2007. Questa apparente stabilità però nasconde enormi differenze per età: gli occupati maturi (55 anni o più) sono un milione e mezzo in più, gli occupati giovani e adulti un milione e mezzo in meno. Solo in parte questo cambiamento è dovuto all’invecchiamento: infatti, nel corso dell’ultimo decennio, l’età media della popolazione italiana della classe 15-74 è passata da 44,6 nel 2007 a 45,8 anni nel 2016, mentre l’età media dei lavoratori è aumentata a una velocità più che doppia: da 41,6 a 44,4 anni.

Gli occupati maturi sono aumentati anche a causa delle riforme pensionistiche succedutesi in questi anni: senza la legge Fornero di fine 2011, oggi gli occupati maturi sarebbero 500 mila in meno, e il “buco” nella finanza pubblica nel solo 2016 sarebbe di 7/8 miliardi più ampio. Da questo punto di vista, la legge Fornero è stata una grande redistribuzione di reddito dagli anziani verso la fiscalità generale, ossia – alla fin fine – a favore delle generazioni più giovani.

Ma questo intervento doveroso (seppure tardivo), che ha quasi allineato l'Italia all'Europa per la partecipazione al lavoro degli uomini maturi, non è stato indolore. La situazione più drammatica, a nostro avviso, è quella degli uomini della classe di età 30-54, fra i quali nel decennio 2007-16 la proporzione di occupati è calata dal 90 all’81%. Inoltre fra il 2013 e il 2016 i lavoratori di quell’età hanno continuato a diminuire, mentre quelli in età 15-29 sono aumentati, sia pur di poco.

La pesante caduta del tasso di occupazione degli uomini adulti – che rispetto ai giovani spesso non hanno neppure il paracadute della famiglia – è la principale imputata del pesante incremento della povertà. Oggi le famiglie in povertà assoluta (non in grado cioè di comprare il cibo o di pagare le bollette) sono molto più numerose rispetto al recente passato. Ciò è chiaramente connesso alla inoccupazione degli adulti, visto che la proporzione di famiglie in povertà assoluta è quasi doppia se il capofamiglia è disoccupato (20%) rispetto al caso del capofamiglia operaio (12%), e queste proporzioni crescono ancora se in queste case ci sono due o più figli minori.

Queste considerazioni – a nostro avviso – pongono seri interrogativi sull’opportunità di agevolare in modo selettivo le assunzioni dei giovani, concentrando gli sgravi contributivi sugli under 35, come sembra essere nelle intenzioni del governo. La necessità di introdurre una qualche selezione è ovvia, visti i chiari di luna del bilancio pubblico. Tuttavia, bisogna evitare di penalizzare i disoccupati non più giovani, quelli che più hanno risentito della crisi.