È vero, come ha scritto Gianfranco Viesti, che il Pnrr rischia di mancare l’obiettivo di riduzione delle disuguaglianze sociali, per motivi in parte diversi a seconda del tipo di disuguaglianza considerata. Nel caso delle disuguaglianze di classe, lo manca perché non se lo pone proprio, né, per così dire, a bocce ferme, rispetto alle disuguaglianze pre-Pnrr, né come possibile effetto delle iniziative finanziate. L’implicita e scontata fiducia che massicci investimenti in vari settori, rimettendo in moto l’economia, produrranno benefici per tutti – la famosa onda che prima o poi solleverà tutte le barche – non è sfiorata dall'ipotesi, ormai acquisita anche da gran parte degli economisti mainstream, che invece possa succedere il contrario: che alcune barche si sollevino, ma altre, come effetto dell’onda, viceversa affondino.

Anche senza mettere in conto gli effetti della guerra russo-ucraina, senza adeguate misure di sostegno e accompagnamento la digitalizzazione, ad esempio, può mettere fuori gioco chi non è attrezzato per trarne vantaggi. Sta già succedendo a livello quotidiano, dove il trasferimento di molte operazioni di uso comune sul digitale sta letteralmente disabilitando persone fin qui competenti e autonome. Ma pensiamo ai molti lavori che spariscono. Anche se la sostituzione fosse uno a uno con quelli nuovi, il che non è vero, per i singoli lavoratori/lavoratrici che si troveranno spiazzati il passaggio non sarà affatto automatico e non basteranno le iniziative previste dal Gol (Garanzia occupabilità lavoratori) per consentire a tutti di effettuarlo. 

Lo stesso vale per la transizione energetica. A voler essere positivi, le disuguaglianze tra individui dovute all’origine sociale appaiono come un obiettivo limitatamente al problema della dispersione scolastica e alle misure di contrasto a questa dedicate. Misure che per altro sembrano mancare il bersaglio perché non sostenute da una adeguata comprensione del fenomeno, che sembra interpretato esclusivamente come una carenza di capacità e motivazione individuale, da compensare con (costosissime) azioni di tutoraggio (online!) individuale, non come esito di circostanze sociali, di contesto, quindi da aggredire (anche) come tali, in una collaborazione tra scuola, famiglie e società civile organizzata.

La genericità degli obiettivi  e la pochezza degli strumenti è massima nel caso delle disuguaglianze di genere e generazionali

Altre disuguaglianze tuttavia sono effettivamente obiettivi espliciti del Pnrr e il rischio di mancarne il contrasto non deriva dalla loro invisibilità, ma dalla genericità con cui sono formulati, da cui deriva anche l’inadeguatezza degli strumenti messi in campo. Mi riferisco ai tre assi trasversali che  esplicitano due tipi di disuguaglianza – territoriale e di genere – e ne indicano implicitamente una terza, quella generazionale, con i giovani in condizione di svantaggio rispetto alle generazioni più adulte. La genericità degli obiettivi  e la pochezza degli strumenti è massima nel caso delle disuguaglianze di genere e generazionali. Si pensi alla fatica con cui si è introdotto il requisito concreto che le imprese che partecipano ai diversi bandi destinino il 40% delle assunzioni a giovani e donne. Requisito, per altro, che non ha altre specificazioni, ad esempio, per quanto riguarda la stratificazione occupazionale, la composizione del decision making ecc. e invece molte eccezioni che permettono di non osservarlo.

Più complesso è il caso dell’obiettivo di riduzione delle disuguaglianze territoriali, quello sicuramente affrontato in modo più concreto e sistematico in tutti i capitoli del Pnrr, se non altro tramite la norma che prevede che per ogni macro-capitolo di spesa il 40% dei fondi vada assegnato al Mezzogiorno. Una prima osservazione riguarda il fatto che le disuguaglianze territoriali sono di fatto concepite esclusivamente nei termini dei divari Centro-Nord/Mezzogiorno. Scarsa attenzione c’è per le aree interne, molte delle quali sono effettivamente nel Mezzogiorno, ma se ne trovano anche al Centro e al Nord. Così come possono esistere forti disuguaglianze – in termini sia di composizione sociale della popolazione, sia di dotazione di beni pubblici – anche in aree geograficamente contigue. Formulare l’obiettivo di superamento delle disuguaglianze solo in termini di macro-regioni rischia di lasciare nell’invisibilità le aree più deprivilegiate all’interno di quelle più ricche di risorse, specie se vale l’osservazione di Viesti che l’iniziativa di presentare progetti è in capo non alle regioni, e neppure ai consorzi di comuni, ma ai comuni singoli, la cui capacità amministrativa e progettuale può essere molto diversa anche all’interno della stessa regione e provincia, per lo più a svantaggio dei comuni più piccoli e più poveri. Con il rischio che nelle macro-aree più ricche le risorse vadano a vantaggio delle sotto-aree più sviluppate e più imprenditive e non di quelle meno sviluppate e con meno risorse.

Ma il rischio c’è anche nel Mezzogiorno. Ovvero, non c’è solo quello, come è già successo in diversi settori, tra cui, da ultimo, i nidi, che il Mezzogiorno nel suo complesso non riesca – per mancanza di adeguate capacità e professionalità amministrative, sovraccarico degli uffici, miopia politica o altro – a presentare in tempo e in modo adeguato le proprie candidature ai bandi per i fondi ad esso destinati. C’è anche quello che siano proprio i comuni e gli ambiti territoriali più bisognosi di intervento all’interno dello stesso Mezzogiorno  a non cogliere le opportunità.

Formulato in modo autarchico e senza alcuna consultazione e coordinamento con regioni e comuni, il Piano affida la presentazione di progetti di intervento pressoché  esclusivamente a questi ultimi, ignorandone le reali possibilità

Qui sta, a mio parere il nodo principale del modo in cui è stato pensato e poi “messo a terra” il Pnrr. Formulato in modo autarchico e senza alcuna consultazione e coordinamento con regioni e comuni, affida la presentazione di progetti di intervento pressoché  esclusivamente a questi ultimi, spesso ignorando le difficoltà burocratiche e di mancanza di personale che devono fronteggiare le amministrazioni locali e che spesso scoraggiano quelle più sguarnite, o più oberate, dal partecipare. Eventuali indicatori di bisogno sono utilizzati  solo come elementi del punteggio ai fini della scelta di quali progetti finanziare, non come criterio da cui partire per individuare le aree intervento. Come se le decisioni circa le direzioni dello sviluppo del paese e il benessere dei cittadini dipendessero esclusivamente dalle decisioni puntiformi più o meno casuali, e dalle capacità progettuali, degli amministratori locali, anche per aspetti fondamentali come le connessioni ferroviarie con il resto del paese, i servizi educativi e di cura per i più piccoli, la disponibilità di scuole  e  servizi sanitari adeguati, e così via. Pur mettendo a disposizione molte risorse finanziarie, una grossa parte delle quali a carico delle nuove generazioni, incluse quelle che abitano o abiteranno le aree più deprivilegiate, lo Stato non si assume la responsabilità di  garantire livelli di base uniformi, sia indicando ex ante in modo non generico ma specifico, sulla base di indicatori esplicitati e condivisi, quali siano le aree prioritarie su cui è necessario intervenire, sia eventualmente affiancando gli enti locali che da soli non ce la fanno a definire i progetti necessari e poi ad attuarli, in modo da garantire che anche in quei luoghi venga raggiunto lo standard base di dotazioni e opportunità. Oggi l’affiancamento c’è, ma solo sulla parte tecnica e solo per gli enti che prendono l’iniziativa. Ci sono, in alcuni casi (ad esempio nel settore istruzione), punteggi di vantaggio per le situazioni meno privilegiate e persino fondi ad hoc per quelle più problematiche. Ma rimane il meccanismo dei bandi, che richiede che sia l’ente locale (o la singola scuola, a seconda dei casi) a farsi avanti e competere con i propri simili.