Ci siamo. Fra meno di un mese inizia, con i primi test che si terranno in Iowa e New Hampshire, la vera corsa per le elezioni presidenziali americane.
Se l’attenzione dell’opinione pubblica americana e internazionale si concentrerà, quindi, sempre di più sulle accese diatribe all’interno dei due partiti maggiori – e in particolare su quello repubblicano per via dei sondaggi che continuano a dare come vincente Donald Trump – non per questo, però, si dovrà perdere di vista il presidente uscente.
Vari sono i motivi che inducono a ritenere che Barack Obama continuerà a rimanere al centro della scena politica interna e internazionale. Innanzitutto, egli ha già dimostrato, a partire dal disastroso esito delle elezioni del 2014, di non avere alcuna intenzione di rivestire il ruolo di "anatra zoppa". Al contrario, in ogni occasione, ribadisce che si impegnerà a portare avanti la sua agenda politica sino alla fine del suo mandato. Inoltre, Obama intende andare oltre la pur comprensibile attenzione alla sua eredità politica, soffermandosi sul consolidamento di quelle riforme che, a suo avviso, stanno rimodellando il volto dell’America.
Da questo punto di vista, gli ultimi mesi del mandato sono cruciali perché la sua capacità di leadership da un lato permetterà di creare uno spazio politico di agibilità per il Partito democratico e per colui o colei che sarà candidato/a alla presidenza, dall’altro porrà le premesse per una vittoria che Obama considera cruciale per non vanificare l’operato dei suoi otto anni di presidenza. La decisione di anticipare al 12 gennaio il tradizionale discorso sullo stato dell’Unione ha molto a che vedere con il voto in Iowa. Il discorso sarà l’occasione non tanto per proporre a un Congresso riluttante una serie di misure quanto per delineare una visione di più ampio respiro rispetto alle strategie e alle sfide per il futuro. Un discorso d’addio di un presidente giovane che vuole passare alla storia non solo per essere il primo afroamericano eletto alla Casa Bianca, ma anche per i cambiamenti che ha impresso al Paese.
La sua eredità presenta non poche ombre, soprattutto dal punto di vista di una politica estera percepita come debole e appannata. Una politica estera frutto in realtà di un riposizionamento delle strategie sia dal punto di vista geopolitico sia da quello delle priorità, che però non si è mostrata sufficientemente flessibile per comprendere i nuovi sviluppi e le minacce emerse soprattutto dal contesto mediorientale. Tuttavia, se volgiamo lo sguardo alla politica interna, se caliamo il suo mandato all’interno delle trasformazioni della politica americana contemporanea, la sua presidenza non potrà non apparire una svolta e la sua capacità di governo dovrà essere valutata in relazione a mutamenti più profondi che riguardano non solo la politica americana, ma il modo in cui si sta ridisegnando il processo della decisione politica quantomeno nel contesto delle democrazie occidentali.
Obama sembra essere scampato a quella che alcuni studiosi della presidenza hanno definito la "maledizione del secondo mandato". Negli ultimi quarant'anni tutti coloro che hanno vinto un secondo mandato hanno dovuto affrontare scandali e conflitti che hanno inficiato la loro immagine politica: Nixon si è dimesso in seguito allo scandalo Watergate, Reagan è stato segnato dall’affaire Iran-Contras, Clinton ha affrontato la procedura di impeachment, Bush Jr è stato travolto dal disastro iracheno e dalle polemiche seguite alle colpevoli mancanze nella gestione dell’uragano Katrina.
Obama no. O, almeno, non sembra profilarsi all’orizzonte uno scandalo delle proporzioni di quelli del passato. Così come sarebbe poco equo non considerare gli indubbi risultati della sua azione politica: dalle misure di controllo sull’economia alla riforma sanitaria, dalla revoca della legge di Bush sui tagli fiscali a favore dei ceti più ricchi alle norme di regolazione delle emissioni di gas-serra, dagli incentivi a favore delle fonti di energia rinnovabili alle misure per aumentare i minimi salariali per i lavoratori federali, divenute un modello per leggi simili approvate in 17 Stati.
Anche il rapporto con il Congresso repubblicano è più complesso di quanto non appaia a una lettura superficiale. Obama è sembrato in grado di promuovere, laddove è stato possibile, politiche bipartisan che sono alla base di alcuni temi che probabilmente troveranno un esito legislativo nell’anno appena iniziato e che sono tutt’altro che trascurabili: dalla riforma della giustizia penale all’accordo Trans-Pacific Partnership Trade, fino a quella che avrebbe dovuto essere la sua prima iniziativa di rottura nel 2008, vale a dire la chiusura di Guantanamo.
Ciò che è più rilevante però è il mutamento culturale e istituzionale che la sua azione ha prodotto rispetto al ruolo e all’azione di governo. Da un lato, con Obama si è avuto un rovesciamento culturale – anche se è difficile parlare di una vera e propria rivoluzione stile Reagan – rispetto all’immagine e alla funzione del governo. Secondo alcuni sondaggi, soprattutto gli elettori più giovani, repubblicani compresi, vedono in modo positivo una maggiore presenza del governo soprattutto attorno ai temi del Welfare, dell’economia e della diminuzione delle disuguaglianze sociali.
Dall’altro, però, è lecito chiedersi se si tratta di una maggiore azione del governo o, invece, di una continua estensione dell’esercizio del potere presidenziale in funzione di supplenza o di vera e propria contrapposizione al Congresso. Obama ha annunciato, così come aveva fatto sul tema dell’immigrazione, che ricorrerà allo strumento del decreto presidenziale per affrontare il nodo del controllo delle armi. Consapevole che il Congresso non approverà mai una legge per mettere un argine alla vendita delle armi, il presidente vuole agire in modo unilaterale per cercare quantomeno di regolamentare il rilascio delle licenze. Lo aveva già fatto a proposito dei minimi salariali e soprattutto dell’immigrazione. Che effetto ha tutto ciò?
Obama, in linea di continuità con Bush Jr., estende pericolosamente, quantomeno dal punto di vista costituzionale, i poteri dell’esecutivo a scapito del legislativo, così come sta accadendo anche in contesti a noi più vicini. Di fronte alla crisi della rappresentanza, al discredito del Congresso (nel 2015 solo il 15% ne ha avuto un’opinione favorevole), alla difficoltà della politica di trovare, se non in rari casi, una sintesi di tipo legislativo, il potere esecutivo appare oggi ulteriormente rafforzato. È la conferma che il bisogno di efficienza nazionale non risponde solo alle esigenze della sicurezza e delle emergenze, ma è il risultato di una trasformazione istituzionale che rende la presidenza un soggetto sempre più autonomo e svincolato dai tradizionali pesi e contrappesi della democrazia rappresentativa americana. Da questo punto di vista, appare lecito affermare che un presidente non "vale" un altro. A novembre, quindi, la posta in gioco sarà particolarmente alta.
Riproduzione riservata