Vi è un generale consenso attorno al fatto che il lavoro sia il tema centrale di ogni politica di sviluppo dell’Italia. L’erosione dei salari, la diffusione di lavori degradati, l’estrema polarizzazione, il crescente fenomeno dei working poor, il mismatch fra offerta e domanda di lavoro, la disoccupazione giovanile, il fenomeno dei Neet (oggi più di 2 milioni e mezzo in Italia) sono alcuni dei fenomeni più eclatanti. La digitalizzazione, e in particolare l’Intelligenza artificiale, per molti commentatori minaccia i posti di lavoro, soprattutto dei lavoratori della conoscenza di medio livello.
Il fenomeno della great resignation e quello del quiet quitting esplosi dopo la prima fase della pandemia in Usa, in Europa e persino in Italia, segnalano una nuova fase di insofferenza dei lavoratori a tutti i livelli verso posizioni lavorative che non assicurino una accettabile qualità della vita di lavoro. Difatti, un milione e 600.000 persone in Italia hanno lasciato volontariamente il lavoro che avevano, mentre i dati di Gallup indicano che in Italia solo il 5% è contento del proprio lavoro (10% area Ocse).
Su come attuare politiche attive del lavoro, defiscalizzazione del lavoro, formazione, valorizzazione delle relazioni industriali si dibatte molto fra le forze politiche, pur senza programmi davvero risolutivi. Poco discussa invece è la necessità di creazione di lavori di qualità e lavori decenti, ridisegnando il lavoro in sé e formando le persone a svolgerlo.
Negli anni passati il dibattito sul lavoro è rimasto confinato alle dimensioni quantitative, numero di posti disponibili o promessi, sostiene Dario Di Vico, che annota anche che più che una ritirata dal lavoro, oggi si registra il segnale di una profonda inquietudine, che impone come obiettivo quello di aggiornare le metriche del lavoro. E si augura che il 2023 sia l’anno del lavoro di qualità. Si sceglie di andare o di restare dove si sta bene e ci si mette in gioco, afferma invece Marco Bentivogli: ma più che studiosi della great resignation ci vogliono architetti del nuovo lavoro.
Occorre valorizzare e proteggere sia il lavoro del progettista di tecnologie o dell’esperto di marketing sia il lavoro dell’operaio alla catena di montaggio, dell’addetto alle casse di un supermercato, del cameriere ai tavoli, del rider. E soprattutto creare lavori che possano offrire una speranza ai disoccupati e sottoccupati. In poche parole, occorre una professionalizzazione di tutti.
Tutto questo dovrà essere realizzato da una classe di architetti dei nuovi lavori che operano sia nelle singole organizzazioni private e pubbliche sia nelle sedi istituzionali: essi sono imprenditori, manager, amministratori pubblici, membri delle istituzioni, docenti, ricercatori, sindacalisti e soprattutto i lavoratori stessi che, nella loro pratica professionale, mentre gestiscono e innovano le singole organizzazioni, sviluppano al tempo stesso nuovi paradigmi e nuove culture.
Cosa dovranno fare quindi questi architetti dei nuovi lavori? Sono cinque le cose principali: realizzare nuove idee di lavoro; progettare ruoli, mestieri e professioni integrate con nuove tecnologie e organizzazioni; istituzionalizzare e certificare le nuove professioni; assicurare la qualità della vita di lavoro; formare persone integrali. Ed essi dovranno essere sostenuti da patti nazionali e regionali sul lavoro.
Nei casi migliori emerge e si diffonde un nuovo modello di lavoro, basato su conoscenze e responsabilità, che sia in grado di controllare e migliorare processi produttivi e cognitivi complessi e che sia basato su competenze tecniche e sociali. Un lavoro che susciti impegno e passione. Un lavoro fatto di relazioni tra le persone e con le tecnologie e che sia orientato al purpose, ovvero a obiettivi realizzabili. Un lavoro che includa anche il workplace within, ossia il posto di lavoro dentro le persone con le proprie storie lavorative e personali, la loro formazione, le loro aspirazioni e potenzialità. Un lavoro che si avvalga delle straordinarie capacità delle tecnologie digitali: Iot e ChatGpt non come rimpiazzo dei lavori ma come strumenti per nuovi “lavoratori aumentati” nelle fabbriche e negli uffici. Un lavoro permeabile con la vita personale, entrambi tesi al perseguimento del benessere e dell’autorealizzazione.
Nei casi migliori emerge un nuovo modello di lavoro, basato su conoscenze e responsabilità, che sia in grado di controllare e migliorare processi produttivi e cognitivi complessi e che sia basato su competenze tecniche e sociali
Le persone avranno voce non solo su come, ma anche su cosa produrre e saranno capaci di “costruire una vita in comune” con gli altri lavoratori e con i loro “clienti”. Gli orari di lavoro saranno via via ridotti. Il luogo di lavoro sarà ubiquo, fra la sede dell’organizzazione in cui si lavora e la casa. In questo processo di trasformazione dei lavori, bisognerà gestire le relazioni fra i soggetti portatori di interessi diversi: il management, le autorità regolatorie, i lavoratori, i rappresentanti sindacali. La progettazione avverrà con processi di partecipazione.
La prima componente dei lavori di nuova concezione è rappresentata dai “ruoli aperti”: non le mansioni prescritte nel taylor-fordismo, ma “copioni”, ossia definizione di aspettative formalizzate o meno che divengono “ruoli agiti” allorché vengono animati.
I nuovi ruoli – fra loro diversissimi per contenuto, livello, valore, competenze richieste – saranno l’opposto degli attuali “lavori in frantumi” e saranno basati su quattro dimensioni costitutive: responsabilità su risultati materiali e immateriali, economici e sociali, strumentali ed espressivi; autonomia e governo dei processi di lavoro di fabbricazione di beni, di elaborazione di informazioni e conoscenze, di generazione di servizi, di ideazione, di attribuzione di senso, di creazione; gestione positiva delle relazioni con le persone e con la tecnologia, ossia lavorare in gruppo, comunicare estesamente e soprattutto interfacciarsi e dialogare con le tecnologie digitali; possesso e continua acquisizione di adeguate competenze tecniche e sociali.
Ma in un contesto in cui gran parte dei lavori di oggi non ci sarà più nel 2027, come assicurare work identity alle persone e programmabilità ai policy maker? Le nostre ricerche ci inducono a dire che il paradigma dominante potrà essere quello dei mestieri e delle professioni dei servizi a banda larga (broadband service profession).
Tali mestieri e professioni emergenti non avranno un sistema di licenze, certificazione, autorizzazione o valutazione extra-aziendale, come nel caso delle professioni ordinistiche. La forma contrattuale può essere quella di lavoro subordinato (dipendente di azienda o amministrazione) o di un incarico di prestazione. Ma il modello professionale deve avere una sua riconoscibilità e gestibilità includendo un servizio legittimato di significativo valore tecnico, economico, sociale; teorie e tecniche che sostengono l’erogazione del servizio; deontologia; autonomia e discrezionalità, basata sull’assunzione del rischio; competenze distintive; reputazione e notorietà nell’organizzazione e presso i clienti; curriculum scolastico e certificazione delle esperienze; standard professionali; comunità professionale di riferimento; formazione scolastica e aziendale. E soprattutto, un “ideale di servizio” caratterizzante e impegnativo.
Come configurare e formalizzare questi lavori (job design e job crafting) senza ricadere in mansionari o profili adatti a un’altra generazione di lavori è la sfida degli architetti dei nuovi lavori. Riconoscere e proteggere la “professionalità” senza limitarsi agli istituti del lavoro dipendente è la grande sfida per il diritto del lavoro e delle relazioni industriali.
La qualità della vita di lavoro include sei dimensioni principali: l’integrità fisica delle persone è la prima dimensione fondamentale; l’integrità cognitiva riguarda la capacità di capire e padroneggiare i processi di lavoro; l’integrità emotiva è ciò che consente di padroneggiare fatica mentale, stress, tensione; l’integrità professionale si riferisce ai diritti alla remunerazione, allo sviluppo e riconoscimento professionale, alla formazione, al welfare, al grado di sicurezza di trovare lavoro; l’integrità sociale riguarda l’equilibrio fra vita e lavoro. L’ultimo criterio, il più importante di tutti, è l’integrità del sé, il sapere chi si è.
Il benessere o la felicità non derivano solo dall’assenza di aggressioni alle integrità evocate ma anche dalla qualità del tempo liberato dal lavoro, generando uno stato d’animo sereno e non turbato da dolori o preoccupazioni.
La formazione deve formare persone capaci di vivere bene prima ancora che di lavorare bene. Tendere verso questo modello e praticarlo crea le condizioni strutturali per sviluppare “persone integrali”, come le chiamava Maritain, ossia persone che siano fisicamente, psicologicamente, professionalmente, socialmente, eticamente integre e soprattutto che godano di una solida integrità del sé. Persone integrali si diventa non solo svolgendo il lavoro di nuova concezione che abbiamo tratteggiato, ma godendo di un crescente tempo libero di qualità, ricevendo in tutte le stagioni della vita una formazione alla cittadinanza. E imparando per tutta la vita (long life learning).
Persone integrali si diventa non solo svolgendo il lavoro di nuova concezione che abbiamo tratteggiato, ma godendo di un crescente tempo libero di qualità
Si propone, in sintesi, di accelerare un percorso di valorizzazione strutturale del lavoro umano, già in atto nei contesti più virtuosi, ma che non ha dato finora luogo a un modello generalizzato come è stato invece il taylor-fordismo: un percorso di professionalizzazione di tutti e non solo di un’élite. Laddove con professionalizzazione si intende l’aumento di valore e di professionalità dei ruoli e delle professioni a ogni livello di qualificazione: il lavoro del circa 55% degli attuali lavoratori della conoscenza (chiamati classe creativa, manager, imprenditori, tecnici superiori, artigiani digitali, operai aumentati ecc.), ma anche del 45% dei lavoratori oggi non qualificati, poco pagati, precari. Un lavoro di qualità, un decent work.
Quanto qui viene proposto si muove entro la prospettiva di un nuovo laburismo dei lavori di qualità. In tale prospettiva, come scriveva Adam Smith, il lavoro torna a essere ricchezza delle nazioni. Un percorso, come scriveva Trentin, di libertà nel lavoro invece che di libertà dal lavoro.
Per creare nuovi lavori, occorre sviluppare anche modelli e metodi per la rigenerazione delle organizzazioni italiane, quelle fragili per sopravvivere, quelle forti per affrontare il tifone in corso. I modelli organizzativi innovativi vanno tratti dalle migliori esperienze di successo, italiani e internazionali: sono quelli che superano i modelli burocratici e fordisti che hanno dominato il secolo scorso, ma che sopravvivono ancora nella prassi e nella cultura di buona parte delle organizzazioni pubbliche e private e delle istituzioni. I metodi di cambiamento sono quelli dei progetti e dei programmi partecipativi di progettazione congiunta di tecnologia, organizzazione, lavoro, condotti nelle singole imprese e amministrazioni.
Nel 2023 inoltre il rilancio dell’economia italiana dipenderà dalla valorizzazione del lavoro di qualità. La politica giocherà un ruolo chiave nel disegnare il futuro del lavoro attraverso efficaci politiche attive del lavoro, defiscalizzazione del lavoro, formazione ben fatta e valorizzazione delle relazioni industriali. Ma soprattutto attraverso programmi di sostegno alla riorganizzazione delle organizzazioni e del lavoro. Pensiamo a programmi nazionali e regionali di promozione e sostegno di sviluppo di modelli e metodi innovativi di organizzazione, come lo furono la Mittbestimmung tedesca, l’Industrial Democracy scandinava, il Reinventing Governement Usa, la lean giapponese, e in Italia i Patti territoriali per il lavoro e clima come quello realizzato con successo in Emilia-Romagna.
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