L'amministrazione Usa ha di recente citato Alphabet e il suo motore di ricerca Google per monopolio sul mercato della pubblicità online. Il dipartimento di Giustizia e otto Stati americani accusano la piattaforma di abuso di "potere di monopolio" a scapito di siti web, giornali e altri mezzi di comunicazione. Probabilmente è la prima volta che negli Stati Uniti viene processata una Big Tech sulla questione della concorrenza.
In Francia un deputato socialista ha presentato una proposta di legge per disciplinare la pubblicità svolta dagli influencer in settori “delicati” per le persone, come gli integratori alimentari, i prodotti dimagranti, la cosmesi e i prodotti finanziari.
Questi due esempi ci indicano che il mercato pubblicitario sta cambiando – anche se non sempre, come vedremo, nelle forme corrette – e ciò si ripercuote sugli equilibri dei mezzi di comunicazione e sulla stessa comunicazione pubblicitaria.
Il mercato pubblicitario nel 2022 (dati Nielsen) ammonta a 8,7 miliardi; la quota maggioritaria appartiene al digital, di fatto il web, con il 45%, mentre la televisione, che nel 2010 dominava il mercato con il 57% di quota, scende al 40%. Tutti gli altri mezzi, dalla stampa alla radio, vedono ridursi ulteriormente le rispettive quote.
Mentre i mezzi classici di comunicazione hanno regole precise da seguire, il web vive come in una sorta di terra di nessuno dove vige la legge del più forte
In poco più di un decennio il mercato pubblicitario è stato stravolto. Siccome la pubblicità è la fonte primaria di finanziamento del sistema dei media, anch’esso subisce ripercussioni che rischiano di marginalizzare ulteriormente la stampa e ridurre le potenzialità della stessa televisione. Si potrebbe ribattere che quanto descritto sia una normale evoluzione del mercato. In parte è vero. Basti pensare alla diffusione del web e delle sue principali applicazioni: si stima che più della metà della giornata libera di ciascuna persona sia dedicata alla visione dei social e delle piattaforme digitali in generale. Va però segnalato che, mentre i mezzi classici di comunicazione hanno regole precise da seguire, il web vive in una sorta di terra di nessuno dove vige solo la legge del più forte. Sembra di rivedere la situazione che in Italia si creò con la fine del monopolio pubblico televisivo quando l’assenza di una disciplina del settore agevolò la nascita del duopolio Rai-Mediaset, con l’azienda di Arcore che arrivò a detenere la quota maggioritaria del mercato pubblicitario (nel 2000, il 35% sui mezzi classici e il 63% sulla televisione).
Iniziamo col dire che dei 3,9 miliardi di ricavi pubblicitari assorbiti dal web, più del 90% sono confluiti sui grandi network internazionali, quelli che vengono identificati con l’acronimo Gafam (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft), con l’aggiunta di Twitter e di TikTok. Non a caso anche le principali società di telecomunicazioni vogliono partecipare al grande business della pubblicità digitale e non accontentarsi dei soli “pedaggi” per l’uso della Rete: in quest’ottica va letto il via libera dell’Antitrust europea al piano di Deutsche Telekom, Orange, Telefonica e Vodafone di sfidare insieme le Big Tech per cogestire la pubblicità online.
Il web ha indubbi vantaggi per la comunicazione pubblicitaria. La possibilità di profilare le persone permette di raggiungere i target preferiti; anche se manca ancora la precisione sulle effettive visualizzazioni, a differenza di ciò che avviene in televisione grazie all’Auditel. I vantaggi della Rete derivano anche dal fatto, come detto, che gli operatori non sono sottoposti a vincoli ai quali altri mezzi sottostanno. I mezzi che vi operano, ad esempio, non hanno alcun limite riguardo all’affollamento, cioè la quantità di pubblicità. La televisione (e la radio) è sottoposta a limiti orari e giornalieri; sul web la quantità di pubblicità è debordante. Ciò permette agli operatori della Rete di praticare tariffe piuttosto competitive che mettono ai margini i mezzi classici.
I problemi maggiori riguardano la trasparenza della comunicazione pubblicitaria, che sul web entra in un mondo opaco
I problemi maggiori riguardano la trasparenza della comunicazione pubblicitaria. Sui media tradizionali vi sono codici che garantiscono che la pubblicità sia trasparente e tali codici sono generalmente rispettati, sul web si entra in un mondo opaco. Prendiamo a riferimento le due regole che la pubblicità dovrebbe sempre praticare, la correttezza e la trasparenza. Il primo caso impone che la pubblicità eviti di ingannare il pubblico, mostrando, per esempio, qualità tecniche o prerogative merceologiche che il prodotto stesso non ha oppure che non siano dimostrate. L’elogio, fino alla iperbolica vanteria, è ammesso sottraendosi al giudizio di verità, non è ammesso quando si comunica il falso. L’altro valore è piuttosto delicato: bisogna evitare che la pubblicità sia confusa con l’informazione vera e propria. La pubblicità deve essere sempre riconoscibile come tale. Anche in questo caso, la non osservazione di tale regola comporta un vero e proprio inganno nei confronti del pubblico-consumatore.
Nei mezzi tradizionali queste regole vengono osservate. Da anni opera in Italia l’Istituto di autodisciplina pubblicitaria, un organismo al quale aderiscono i soggetti che operano nel settore della pubblicità. Tale organismo, dotato di un proprio codice e di un giurì, giudica che i comunicati siano corretti; spesso le agenzie di pubblicità richiedono un parere preventivo sui comunicati (anche i singoli cittadini possono fare segnalazioni su eventuali anomalie). Il fatto che le sentenze del giurì siano solerti e rispettate dal settore ha dato certezze a tutto il comparto.
La situazione cambia con l’arrivo di Internet. La comunicazione e la conseguente pubblicità aumentano a dismisura e i controlli sono resi più difficoltosi, nella quasi impossibilità di verificare questo immenso flusso di commercial. Cosa succeda, per esempio, nel mondo del Metaverso è difficile da verificare. Lo stesso si può dire una volta che il nuovo fenomeno del ChatBot si diffonderà: chi ci garantisce che non ci siano all’interno degli elaborati video predisposti dall’Intelligenza artificiale come forme di pubblicità occulte?
Prendiamo come esempio il settore degli influencer. Molta della pubblicità online passa attraverso questi personaggi: il fatto che vengano utilizzati con frequenza dal settore del fashion, sempre alla ricerca degli strumenti più avanzati del marketing, è indicativo delle preferenze degli inserzionisti per questo strumento. Sono personaggi noti dello spettacolo oppure personaggi che hanno un ampio seguito nei social (come gli youtuber, i tiktoker), che diventano spesso essi stessi un brand. I loro “consigli commerciali” sono per molti modelli da seguire. Si finanziano grazie agli sponsor e ai rimborsi che i social elargiscono in base al numero delle movimentazioni che il social stesso ottiene grazie alle loro attività. Queste dinamiche non sono sempre corrette. Anche per l’ultima edizione del festival di Sanremo, l’Autorità per le comunicazioni (AgCom) ha avviato un’indagine per pubblicità occulta, riguardante la promozione fatta sul palco dai conduttori dell’evento di un importante social, apparsa a molti come pubblicità occulta.
Nel 1995 fu proposto un referendum per limitare le interruzioni pubblicitarie all’interno della programmazione dei film lanciando lo slogan “non si interrompe un’emozione”. L’iniziativa referendaria, bocciata dal 56% dei votanti, può far sorridere oggi, considerando che i primi a contestare la proposta sarebbero proprio gli operatori dell’audiovisivo, che dalla televisione traggono i maggiori profitti, stante anche la crisi del box office. Non si tratta di ripetere gli errori del passato, ma a fronte dei problemi c’è da auspicare che questa “nuova pubblicità” sia adeguatamente disciplinata per tutelare i consumatori, di merci e di contenuti editoriali.
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