Nelle ultime settimane, nel dibattito economico, diversi interventi hanno proposto di ridurre gli stipendi nel Mezzogiorno; o, comunque, di ampliare le differenze salariali fra Nord e Sud, per i lavoratori del settore pubblico e di quello privato. Questo per due ordini di ragioni: a) di efficienza economica: minori salari al Sud determinerebbero maggiore occupazione e crescita; b) di equità: essendo il costo della vita minore al Sud, salari uguali sono ingiusti per i lavoratori del Nord, pagati di meno in termini reali.
Gli argomenti sono complessi, anche tecnicamente. Qualche riflessione pare comunque opportuna, perché il tema rischia di rinfocolare ulteriormente contrapposizioni su base geografica nel nostro Paese e di sostenere le richieste di chi vuole “differenziare” le proprie Regioni per ottenere maggiori risorse pubbliche e pagare i propri residenti di più degli altri italiani.
Nell’insieme, gli argomenti proposti in questi interventi non sembrano convincenti. Vediamoli.
1. Gli occupati del settore privato al Sud sono pagati “troppo”? Dai dati disponibili si direbbe di no. I dati mostrano, infatti, ampie differenze territoriali nelle retribuzioni medie. Esse sono parallele alle differenze territoriali nel valore aggiunto per addetto (cioè alla produttività dei lavoratori). Ciò vale per le regioni; e a grana geografica assai fine per i sistemi locali del lavoro. Le differenze di produttività e nei salari medi paiono dipendere in larga misura dalle caratteristiche economiche dei diversi luoghi: specializzazione settoriale e dimensione delle imprese, innanzitutto. Il costo del lavoro per unità di prodotto è assai simile fra le regioni italiane. Il valore assoluto delle retribuzioni non è, poi, certo elevato.
2. Ridurre (o far crescere più lentamente) i salari al Sud favorirebbe l’occupazione? Un corretto rapporto costi/produttività è sempre opportuno. Ma vi sono grandi dubbi che più bassi costi del lavoro produrrebbero un particolare sviluppo dell’occupazione, attraverso la nascita o l’attrazione di nuove imprese. Specialmente perché oggi, a differenza di alcuni decenni fa, con la globalizzazione e l’allargamento dell’Unione europea a Est, vi sono molti luoghi con costi del lavoro assai minori di quelli che si potrebbero determinare al Sud. Fenomeni come il “decentramento produttivo”, e quindi l’impulso alla nascita di sistemi produttivi territoriali (come all’inizio della Terza Italia) potevano verificarsi in un’economia assai più chiusa alla globalizzazione, come quella degli anni Settanta del secolo scorso. Oggi chi cerca localizzazioni produttive a basso costo del lavoro va ad Est o in Asia. E poi, ridurre o far crescere poco la massa salariale, oltre che peggiorare le condizioni dei lavoratori, deprimerebbe ulteriormente la domanda interna al Sud, già assai debole. Per ridurre il costo del lavoro, dare più competitività alle imprese e generare occupazione si può intervenire sul cuneo fiscale e contributivo (come forse il nuovo Governo sembra intenzionato a fare), piuttosto che sul salario: ma sono misure costose per le finanze pubbliche, che aiutano ma non risolvono, come dimostra l’esperienza del passato. Insomma, la strada maestra per accrescere l’occupazione al Sud resta quella degli investimenti in infrastrutture materiali e immateriali, specie in formazione, e dei processi d’innovazione da parte delle imprese.
3. I salari al Sud sono troppo alti rispetto ai prezzi? Le retribuzioni del settore pubblico tendono a essere omogenee nel Paese (anche se già ci sono differenze nelle pubbliche amministrazioni locali e nella sanità): a uguale lavoro uguale compenso. Ma al Sud, si dice, lo stesso compenso, sia nel settore pubblico sia in quello privato, vale di più perché la vita costa meno (ma, ricordiamolo, anche il salario medio è più basso). Non ci sono dati completi sui livelli dei prezzi all’interno del Paese. Secondo le stime Istat, risalenti a qualche anno fa ma, tuttavia, indicative, la differenza nel livello medio dei prezzi tra il Sud e il resto del Paese sarebbe di circa il 15%. Il costo di molti beni (tanto più nell’era di Amazon) non presenta differenze su base territoriale. Alcuni servizi, come quello del barbiere, hanno prezzi più bassi al Sud. Altri, come le assicurazioni, sono più cari. Molti servizi pubblici sono, però, al Sud quantitativamente carenti e di qualità inferiore: il che produce un costo addizionale, non registrato, per mandare il proprio figlio all’asilo, per spostarsi o curarsi. Vi sono poi differenze nei prezzi anche all’interno delle grandi circoscrizioni, fra città e campagna: simili, se non maggiori a quelle fra Nord e Sud. Su quali basi differenziare i salari? Circoscrizioni, regioni, comuni, quartieri?
4. Delicato è il tema dell’abitazione. Per lo stesso appartamento di 100 metri quadri si paga un affitto molto più alto al Nord. La realtà è che due unità abitative di 100 metri quadri in un paesino dell’Appennino e a Milano non sono affatto lo stesso appartamento: costano diversamente perché valgono diversamente, in termini delle condizioni di vita (servizi, cultura, “amenities”) dei luoghi in cui si trovano. E costano diversamente perché molto diversa è la domanda di abitazioni tra regioni, città e tra quartieri delle stesse città. Enormi sono, infatti, gli scarti nei prezzi delle case (fino all’80%) fra centri e periferie nelle stesse aree. E poi, senza considerare che i 4/5 degli italiani vivono in case di proprietà, chi paga un mutuo maggiore (al posto dell’affitto) alla fine si ritrova con un valore patrimoniale molto maggiore.
5. I salari dei dipendenti pubblici, essendo troppo alti, “spiazzano” gli impieghi privati? Fra tutti gli argomenti questo sembra il più debole. Il settore pubblico, ormai da anni, offre scarsissime opportunità lavorative al Sud: i dipendenti pubblici diminuiscono da anni, e rispetto alla popolazione sono pari in tutto il Paese. Questo argomento poteva forse avere validità diversi decenni fa, ma certo assai meno oggi.
Tutte questioni che oggi tornano d’attualità e che sono oggetto di discussione nel nostro Paese da anni perché strettamente connesse ai divari di sviluppo tra Nord e Sud. È bene tenere presente, tuttavia, che differenze regionali e locali nella produttività, nei salari medi e nei prezzi si riscontrano in tutti i Paesi. L’Italia, sotto questo aspetto, non è affatto un caso unico. Nonostante anni di discussione, non c’è alcuna prova convincente che accrescere la differenziazione salariale – che non trova univoche ragioni né sotto il profilo dell’efficienza, né sotto quello dell’equità – possa contribuire a risolvere il problema delle disparità territoriali.
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