Alla vigilia delle elezioni, diverse erano le ragioni che facevano temere per un drastico calo della partecipazione elettorale. Oltre al precedente risultato assai negativo del 2014 in Emilia-Romagna e Calabria, parzialmente confermato dal voto più recente in Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta, la riduzione a una giornata, al posto di due come nel 2010, nell’apertura dei seggi poteva causare la perdita di molti elettori, quelli ad esempio che lavorano nel fine settimana o su turni.
Inoltre, il ponte festivo del 2 giugno poteva essere di ulteriore disincentivo al voto (non si possono dimenticare infatti gli appelli ad “andare al mare” lanciati da alcuni esponenti politici in occasione di importanti referendum). Su questi aspetti di carattere generale s’innestavano poi le polemiche politiche contingenti, come quella sui candidati cosiddetti impresentabili, che andavano a rafforzare il quadro di forte disaffezione e rancore verso i partiti. Sullo sfondo agiva, infine, la questione sociale connessa alla persistenza della crisi economica che si faceva sentire maggiormente in alcune regioni al voto con ulteriori e recenti perdite di posti di lavoro (la letteratura politologica ha ormai da decenni mostrato come le condizioni socio-economiche individuali siano tra i fattori più importanti nel determinare il livello di partecipazione). Inoltre, in assenza di elezioni concomitanti solitamente più partecipate (politiche soprattutto, ma anche comunali), mancavano sia il forte richiamo delle campagne nazionali sia la spinta a partecipare esercitata dalla prossimità alla politica locale.
Se andiamo a leggere i risultati nelle sette regioni al voto il 31 maggio, questo quadro a tinte fosche appare largamente confermato. L’astensione è divenuta per la prima volta l’opzione maggioritaria o prossima ad esserlo in diverse regioni del Paese. Circa un elettore su due non si è recato a votare. Toscana e Marche hanno registrato tassi di partecipazione inferiori al 50%; Liguria, Puglia e Campania hanno visto la partecipazione attestarsi tra il 50 e il 52%, mentre solo Umbria e Veneto hanno superato il 55%. In nessuna regione, quindi, l’affluenza ha raggiunto il 60%, ossia la soglia che nel 2010 era stata superata da tutte e sette. Si è trattato, quindi, di un forte calo, anche se va sottolineato come l’ipotesi più pessimistica, quella di una replica del crollo del 2014 con valori di affluenza attorno al 40%, non si sia verificata nonostante tutte le condizioni sfavorevoli fossero presenti.
Rispetto a cinque anni prima, l’evoluzione negativa della partecipazione alle regionali ha investito tutte le regioni al voto. Se si confronta il dato del 2015 con quello delle ultime europee si può notare, invece, come la diminuzione sia stata nettamente più intensa nelle tre regioni “rosse”, mentre in Campania e Puglia i valori della partecipazione sono rimasti sostanzialmente stabili. Emerge quindi, con sempre maggiore forza, il problema di una spinta centrifuga dell’elettorato centro-settentrionale – in particolar modo di quello dei sistemi territoriali omogenei – evidenziato chiaramente dall’astensionismo eccezionale in Emilia-Romagna nel 2014.
Per approfondire questi risultati e tentare un’interpretazione più generale è utile fare riferimento ai trend degli ultimi 2-3 decenni relativi ai principali ordini di elezioni: quelle regionali, le politiche e le europee.
Cos’è avvenuto nelle sette regioni al voto? I dati, riportati per esteso nel comunicato dell’Istituto Cattaneo mostrano chiaramente come siano proprio le elezioni regionali ad aver subito la maggiore emorragia di votanti. Negli anni Novanta, infatti, si recava a votare a queste consultazioni una percentuale di elettori non dissimile da quella che andava a votare per le politiche. Oggi la situazione è cambiata radicalmente: le elezioni regionali fanno registrare tassi di partecipazione addirittura inferiori alle elezioni europee, che invece sembrano avere acquisito maggiore importanza (o un’importanza relativamente maggiore) tra l’elettorato. Questo dato emerge soprattutto nelle cinque regioni del Centro Nord nelle quali, a partire dalle elezioni del 2000, la partecipazione alle elezioni europee risulta maggiore della partecipazione alle regionali (seppure entrambi i trend siano in discesa, quello delle regionali lo è in maniera più accentuata).
Possiamo, dunque, ipotizzare che l’istituzione europea risulti, nel momento attuale, meno delegittimata presso l’elettorato di quella regionale, o che, forse, gli elettori percepiscano l’Europa come un decisore più rilevante rispetto alle regioni: è possibile che le forti campagne anti-europeiste e il susseguirsi delle scusanti a suon di “ce lo chiede l’Europa” abbiano generato nell’elettorato l’impressione, corretta o fuorviante che sia, che le decisioni importanti anche per la vita di tutti i giorni vengano prese a livello europeo, mentre alle regioni siano lasciati solo compiti esecutivi e amministrativi.
Un ultimo elemento degno di nota è che la perdita di appeal delle elezioni regionali è stata maggiore proprio nelle regioni tradizionalmente caratterizzate da tassi di partecipazione più elevati, ossia nell’area della zona rossa e in particolare in Toscana.
Come leggere questi cambiamenti? Per lungo tempo, le istituzioni regionali hanno raccolto la fiducia dell’elettorato, spesso anche in contrapposizione con le istituzioni nazionali. Lo spazio della politica regionale è stato interpretato come un’opportunità per realizzare la riforma della politica sul territorio e rinnovare il rapporto tra politica e cittadini. In particolare, questo è avvenuto, o è stato percepito come possibile, durante la congiuntura degli anni Novanta con la riforma federale dello Stato e la devoluzione di risorse e responsabilità alle regioni.
Il voto del 2015, unito a quello del 2014, mostra come queste aspettative siano venute meno: l’elettore si allontana dalla politica soprattutto in occasione delle elezioni regionali perché non ha più fiducia nella possibilità di cambiamento che le regioni incarnavano in passato. Le regioni, infatti, non vengono percepite più come il luogo della buona politica contrapposta a una politica nazionale lontana dai cittadini. Al contrario, esse sembrano concentrare, a livello locale, tutti i mali della politica nazionale. Non sorprende quindi che la crisi di aspettative risulti particolarmente accentuata proprio tra quegli elettori più fortemente disillusi, e cioè quelli delle tradizionali “regioni di buon governo”, le regioni della zona rossa.
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