In Italia il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) a dicembre 2010 è salito al 29%, con un trend crescente che l’ha portato al livello più alto dal gennaio 2004. Secondo l’ultimo rapporto Censis, d’altro canto, 2.242.000 persone tra i 15 e i 34 anni rientrano nella categoria Neet (Not in education, employment or training), ovvero coloro che non studiano, né lavorano, né sono in formazione professionale. Stando ai dati dell’Istat, i giovani non più inseriti in un percorso scolastico-formativo, ma neppure impegnati in attività lavorativa, sono poco più di due milioni, il 21,2% degli italiani tra i 15 e i 29 anni (2009): un record negativo a livello europeo. Un enorme “spreco sociale ed economico” dovuto a una molteplicità di fattori, non ultimo l’indisponibilità di molti ad accettare varie tipologie di occupazione, e non soltanto perché dequalificanti rispetto al loro curriculum scolastico.
Davanti a tale situazione, la società e lo Stato che atteggiamento possono assumere? Non va dimenticato che i Neet, a fronte di scarsa (per brevissime esperienze di lavoro di alcuni) o nulla contribuzione beneficiano di tutte le prestazioni e i servizi garantiti dalla cittadinanza.
Ovviamente, c’è una dimensione di disoccupazione strutturale prodotta dal ciclo economico e dai nuovi assetti che il panorama produttivo italiano sta assumendo e che sembrerebbe colpire soprattutto i giovani. Ma pare esista anche una componente di “passività” generazionale, che grava sul resto della società, e quindi un potenziale di risorse che potrebbe essere positivamente messo in circolo con la partecipazione attiva di almeno una parte di quei due milioni e 242mila giovani al mercato del lavoro, al sistema di istruzione superiore o di formazione professionale specifica.
Si tratta di una questione di responsabilità complessiva, che non necessariamente grava solo sul sistema economico, sui decisori politici e sulle generazioni più anziane. Infatti, sempre secondo il Censis, è proprio nella fascia di età fino a 34 anni che si trova la percentuale più alta di coloro che ritengono la mancanza di un impiego dovuta all’indisponibilità ad accettare mestieri faticosi e di basso prestigio sociale.
Il punto è che l’affermazione per cui tutti avrebbero il dovere di contribuire fattivamente, secondo le proprie possibilità, al buon andamento della società in cui vivono e da cui ricevono beni e servizi, una volta tradotta in politiche concrete, rischia pericolosamente di sconfinare nel paternalismo, quando non addirittura in misure illiberali. Ovvero, non si può imporre ad alcuno di accettare un particolare impiego, né di iscriversi a un dato corso di studio.
Obblighi di questo tipo sembrano generalmente inaccettabili, mentre le semplici raccomandazioni al bene comune non paiono realisticamente efficaci. Perciò si potrebbe cominciare a valutare l’ipotesi di “incentivi negativi”, che rientrano in quella classe di politiche che si possono catalogare come “paternalismo soft”, ossia che non costringono alcuno a fare (o a non fare) alcunché, ma tendono a indirizzare i soggetti verso un certo corso di azione, se i soggetti in questione non vogliono pagare un prezzo monetario e/o sociale (cfr. il modello Nudge di Richard Thaler e Cass Sunstein).
In particolare, un primo esempio potrebbe essere dato dall’imposizione di una tassa crescente sulla validità della licenza di guida per tutti coloro che, in assenza di disabilità o gravi impedimenti familiari, non risultano l’anno precedente avere lavorato o frequentato scuole, università o corsi professionali. La libertà di movimento è un diritto costituzionale che non può essere conculcato; qui si tratta solo di rendere un po’ più oneroso il rinnovo di una certificazione che per i giovani ha grande valore. Ovviamente, andrebbero previste ulteriori specificazioni (chi è iscritto alla disoccupazione e non ha ricevuto alcuna offerta di lavoro; chi è appena diplomato o laureato e ha diritto a un periodo di “riposo o riflessione”; chi fa vita “contemplativa”: tutti costoro non dovrebbero essere penalizzati).
Altre limitazioni o sovrattasse potrebbero essere individuate, alcune capaci di introdurre un certo “stigma” visibile, pur limitato. Ad esempio, chi non può esibire un “patentino” di “non Neet” paga di più per trasporti, spiagge e mostre a gestione pubblica. Tra l’altro, misure di questo tipo danno un incentivo a fare uscire dal “nero” piccoli lavori saltuari o situazioni al limite dell’illegalità.
L’introduzione di provvedimenti simili potrebbe avere un valore soprattutto simbolico. Vi sarebbero infatti notevoli difficoltà di realizzazione, costi amministrativi e un aumento di burocrazia (dichiarazioni da rilasciare da parte di imprenditori e scuole; inevitabile “mercato” di false attestazioni), tali da rendere la procedura più onerosa del suo ritorno in termini monetari. Si avrebbe tuttavia una ricaduta sociale ed economica indiretta, anche in termini di attenzione al problema, di sensibilizzazione di famiglie, operatori scolastici, istituzioni preposte all’orientamento professionale e media. Un po’ come l’idea di fare una legge che obblighi i figli a farsi carico dei genitori anziani (altro problema emergente, sta accadendo in Cina): seppure non venisse fatta rispettare rigorosamente, servirebbe a dare una nuova “centralità” al problema e a creare comunque un’obbligazione diffusa. Per cominciare a fare capire che essere Neet è costoso e non è bello, basterebbe qualche multa salata a chi non ha pagato la “tassa” durante i controlli sulle strade del sabato sera.
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