Sanders, tutto fuorché sconfitto. Per costruire un movimento politico le primarie non sono sufficienti, nemmeno queste alquanto eccezionali primarie che Hillary Clinton e Berny Sanders si contendono. Eleggere un presidente non è un evento sufficiente a cementare un gruppo politico. Ma il processo di formazione di un movimento di opinione politica informato e caratterizzato, diciamo pure partigiano, a questo punto esiste negli Stati Uniti e si sta consolidando. Le fondamenta sono state poste con le primarie e l’elezione di Barak Obama, nel 2007 e 2008, che fu un appuntamento cruciale soprattutto sul piano simbolico più che su quello dei contenuti politici: Obama era più moderato della stessa Clinton. Dopo l’elezione di Obama e con la crisi economica al suo apice, una solida base è stata gettata dal movimento di Occupy Wall Street. Questo non è stato un moto effimero e nonostante la sua breve durata a New York (ma manifestazioni si tennero in quasi tutte le grandi città) ha sedimentato alcune convinzioni che stanno ora prendendo la strada della rappresentanza politica e dell’accesso alle istituzioni. Se Occupay Wall Street si era rigorosamente mantenuto fedele ai metodi della democrazia diretta (i manifestanti in piazza Zuccotti rifiutarono ogni forma di mediazione, anche il megafono, e si servirono del passa-parola per discutere in assemblea come nelle antiche città) le sue idee, o meglio la traduzione di quelle idee in progetti e proposte politici, vogliono necessariamente una rappresentanza elettorale. Questo è il progressive moment che si sta cristallizzando con la galoppata del vecchio socialdemocratico del Vermont verso la nomination.
È anche per questa ragione che Sanders ha deciso che non vi è proprio alcun motivo per ritirarsi dalla competizione e che vale la pena di combattere fino all’ultimo, fino a quando si giungerà alla Convention, dopo aver attraversato tutti gli Stati dell’Unione. Sanders ora ha delle chances, dati i sondaggi sui trend di gradimento (in crescita) e dati gli ultimi tre enormi successi negli Stati di Washington, Alaska e Hawaii. New York – la roccaforte dei democratici (Hillary Clinton ne è la senatrice) e anche dei socialdemocratici (tanto per intenderci, nella Grande Mela l’acqua è pubblica e gratuita) – e la California (che ha tradizionalmente battezzato le innovazioni politiche e di costume dell’America) sono i due appuntamenti ai quali Sanders pensa con ragionevole ottimismo. Yes, we can sembra un’esortazione passata di mano ai progressisti.
Per la prima volta, i sondaggi Bloomberg di questi giorni mostrano che Sanders sta conquistando progressivamente consensi (invece di perderli come ci si poteva aspettare) presso i votanti registrati nel Partito democratico. Il segno di questa lenta onda montante sta nella campagna finanziamenti. Sanders ha conquistato con intensità crescente più e più supporters desiderosi di contribuire con personali donazioni: a fine febbraio aveva raccolto tra privati cittadini e piccoli donatori 43 milioni di dollari contro i 30 milioni della Clinton, la quale ricorre per il 70% alla forma di finanziamento più problematica, quella dei grandi donatori e delle multinazionali. Alla recente cena organizzata per sostenere la sua campagna, un posto a tavola costava 350 mila dollari – una notizia che non ha fatto che peggiorare la reputazione della signora Clinton presso i democratici in questi tempi di vacche magre.
Nonostante il trattamento alquanto duro che Sanders ha ricevuto e sta ricevendo da parte della stampa e dei media accreditati, il suo “momentum” non scema ma acquista intensità e il web dimostra di non essere meno potente delle testate giornalistiche e televisive. Inoltre, dal punto di vista ideologico, lo spauracchio comunista non funziona più e la possibilità di avere un governo che prenda sul serio le enormi diseguaglianza economiche di quel Paese non fa temere a un numero sempre più largo di votanti di “cadere” nel socialismo. Da dove viene questo desiderio di disobbedire alle dirigenze del partito?
La lunga e persistente marcia verso il centro dei due partiti rivali ha prodotto una loro consunzione. A destra il Gop (Grand old party, come viene comunemente chiamato il Partito repubblicano) non riesce ad esprimere un candidato suo e si deve affidare al populismo cinico di un candidato davvero strano, con il quale lo accomuna solo la xenofobia per riuscire a competere per la Casa Bianca (con l’attacco agli immigrati Donald Trump cerca di far dimenticare le sue posizioni liberal sui diritti, le sue proposte di politiche sociali per i poveri, il suo evitare di proporre la riduzione delle tasse, e la sua contestazione dura e diretta sia della guerra in Iraq che delle spese militari astronomiche che impone la Nato). A sinistra, Obama ha consumato ogni illusione progressista cercando di lanciare una Clinton che ha molta probabilità, se ci riuscirà, di vincere con il voto determinante dei repubblicani, consacrando così una spaccatura nel suo partito che sarà ancora più insanabile. I partiti sono “parte” e quando pensano di voler essere “tutto” e cercano i voti di tutti senza distinzione, allora sono puniti dagli elettori e dai simpatizzanti – perché la politica democratica, quella elettorale, è una competizione che si realizza solo grazie al “prendere parte” e allo “schierarsi”, come raccomandava Solone ai suoi concittadini quando, dopo la rivoluzione democratica, si fecero apatici e astensionisti.
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