India senza alternanza. L’India ha un governo (di destra indù), ma non ha un’opposizione (progressista, o laica, o socialista, o semplicemente alternativa) pronta ad andare al potere. Questa è la sentenza del recentissimo voto popolare in quattro Stati, importanti, della Repubblica indiana: Assam, Kerala, West Bengala e Tamil Nadu (più il piccolo territorio di Pondicherry).
Le consultazioni riguardavano il rinnovo delle locali Assemblee legislative, che designano i chief minister, i capi locali di governo. Nelle elezioni nazionali del 2014, il Bjp – la destra nazionalista indù guidata da Narendra Modi – aveva letteralmente stracciato il partito del Congresso, conquistando una maggioranza senza precedenti per un partito «no-congress» alla Lok Sabha, la Camera bassa. Il leader del Bjp, Narendra Modi, nonostante la sua storia politica alquanto controversa, aveva ricevuto un forte mandato popolare per cambiare. Nelle consultazioni locali del 2015, negli Stati di Delhi e del Bihar, popolosa e importante realtà del nord dell’India, la destra aveva però perso: a Delhi aveva vinto l’Aap, il «partito dell’uomo comune»; in Bihar si era imposta la coalizione anti-Bjp, chiamata «Grande Alleanza», il cui cuore è costituito da due partiti «castali».
Morale: in queste elezioni del 2016, il Bjp doveva verificare quindi il grado di consenso. In questi quattro Stati governavano partiti estranei alla destra, quindi la prova era ancora più interessante. In due, l’Assam e il Kerala, governava il Congresso. Il primo dato politico parla molto chiaro: il partito di Sonia Gandhi ha confermato il suo trend politico decisamente negativo. Ha perso in entrambi gli Stati. In Assam ha perso contro il Bjp; in Kerala la coalizione guidata dal Congresso, Udf (United democratic front), ha perso contro la coalizione dell’Ldf (Left democratic front), guidata dalla sinistra. Il partito di Sonia Gandhi quindi ha perso sia a destra sia a sinistra.
Negli altri due Stati, il Tamil Nadu e il West Bengala, il Congresso partecipava a coalizioni locali. Nel primo assieme a un partito regionale, Dmk; nel secondo assieme alla sinistra (la politica indiana è sempre molto complicata: a Calcutta il Congresso è alleato della sinistra, a Kochi è avversario). Coalizione diverse, risultati simili: le coalizioni a cui partecipava il Congresso hanno perso. In entrambi i casi, sono state riconfermate al potere due chief minister donne, leader di partiti locali di ispirazione laica: in West Bengala, Mamata Banerjie, leader del Tmc; in Tamil Nadu, Jayalalithaa, leader dell’Aiadmk.
«Il Congresso non è più un rivale competitivo per il Bjp», ha immediatamente sentenziato un rispettato ex primo ministro, Deve Godwa. Che ha poi aggiunto: «I partiti regionali nei rispettivi Stati ormai sono competitori della destra nazionalista». Alla cerimonia di insediamento di Mamata a Calcutta, per il suo secondo mandato, hanno partecipato il chief minister del Bihar, Nitish Kumar, leader dello Janata united Dal; il leader dell’Rjd, Lalu Prasad, esponente di rilievo del Bihar; il chief minister dell’Uttar Pradesh e il leader del suo partito, il Samajwadi Party; e il chief minister di Delhi, Arvind Kejriwal, leader dell’Aap.
La cerimonia di Calcutta è stata la prima prova visiva di una coalizione alternativa al Bjp? Forse, ma le contraddizioni sono tante
La cerimonia di Calcutta è stata la prima prova visiva di una coalizione alternativa al Bjp? Forse, ma le contraddizioni sono tante. Le opposizioni sono fortemente frammentate: il partito del Congresso resta un fattore rilevante in termini di suffragi, ma spesso non riesce ad amalgamarsi con i partiti regionali, castali o di sinistra. Il partito di Sonia Gandhi (dopo la gravissima sconfitta del 2014), appare sempre più dilaniato nel dilemma, o continuità dinastica, con i Nerhu-Gandhi, facendo aumentare la contestazione antidinastica, o andare oltre i Nerhu-Gandhi, perdendo così l’unico suo collante. In queste condizioni, è molto difficile costruire una coalizione alternativa senza il Congresso, ma è altrettanto difficile farla anche assieme al Congresso. D’altra parte, i partiti regionali-castali hanno interessi divergenti: essi governano importanti Stati dell’India, dall’Uttar Pradesh al Tamil Nadu, passando per il West Bengala e il Bihar: costoro hanno spesso interesse ad avere rapporti stretti con il governo centrale, al di là delle differenze ideologiche forti con la destra nazionalista indù. Ciò li mette in una posizione complicata rispetto al governo Modi e quindi alla destra.
In queste condizioni, il Bjp è padrone del centro del sistema politico indiano, in un assetto nel quale le opposizioni sono forti in termini di voto popolare, ma troppo frammentate. Le opposizioni possono creare ostacoli al governo alla Camera alta (ricordiamo, l’ordinamento indiano è un bicameralismo imperfetto, molto influente). Morale: per ora non c’è un valido fronte alternativo. La democrazia indiana rimane senza alternanza, confermando, con ciò, il trend dei sistemi politici asiatici, ovvero la transizione verso un modello politico a partito «dominante» in stile orientale.
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