Ridurre la pausa da 40 a 30 minuti è davvero così inaccettabile, se in mezzo c’è il rischio di perdere il posto di lavoro? Messa così la domanda, la risposta è ovvia. Questo non è il ragionamento di Marchionne, che, da un suo solido punto di forza, semplicemente pone l’alternativa, ma di gran parte dei politici, di destra e di sinistra, della Confindustria, di gran parte del sindacato e dei giornalisti più autorevoli della stampa che conta. Vale a dire delle persone che in assenza di una consultazione diretta dei cittadini interpretano sulla base di mandati diversi e più o meno robusti il sentire della maggioranza della nostra società. In realtà la domanda mi pare ponga un’alternativa in modo scorretto. Si potrebbe infatti rispondere che di questo passo si arriva alle condizioni di lavoro del Quangdong (in proposito, per rendersene conto, consiglio la lettura di Operaie, di Leslie Chang). Alla luce di questa giusta replica, che ricorre allo strumento retorico di portare l’argomento all’estremo, il problema mi pare debba essere posto in termini diversi. In Europa (in Italia, in Germania) e negli Stati Uniti (anche se in misura minore che in Europa), il lavoratori, in alcuni casi anche attraverso la sanzione di leggi, hanno ottenuto che il lavoro debba essere espletato nel rispetto di certe condizioni di tutela dell’integrità personale, della dignità del modo di espletarlo e di remuneralo; condizioni che oggi i lavoratori cinesi e polacchi non hanno.Il modo corretto di porre il problema per me è un altro: queste condizioni di tutela - oggi provvisorio punto di equilibrio tra la forza dei salariati e quella dei datori di lavoro, anche se sancite da leggi - rappresentano ciò che le società occidentali considerano una società giusta? Se la risposta è sì, quelle condizioni vanno difese, anche prescindendo dalle conseguenze del posto di lavoro immediato. Solo se la risposta è no, si può cominciare a discutere se tali vantaggi, che dovremmo quindi considerare addizionali rispetto a ciò che nel comune sentire è giusto, potrebbero essere ridotti per ottenere altri vantaggi rilevanti su altri piani.
In altre parole, affermare che è necessario dire sì all’accordo, seppure obtorto collo, perché è necessario mantenere ed eventualmente attrarre investimenti in Italia per difendere oggi il posto di lavoro degli operai di Mirafiori, non è un modo corretto di argomentare. Se i diritti/privilegi di cui oggi in Italia godono i lavoratori rientrano nella nozione di giustizia che la nostra società è in grado di esprimere, le pur certamente utili politiche di incoraggiamento degli investimenti esteri dovrebbero essere perseguite nel rispetto di quei diritti.
Sull’accordo di Mirafiori dovrebbero quindi esprimersi non solo gli operai di Mirafiori, ma tutta la società. In assenza di un referendum generale, tale compito è affidato in modo indiretto ed elusivo ai canali sopra citati (politici, associazioni di categoria, media). Non è quindi ragionevole proporre risposte così sicure come fa la quasi totalità degli economisti autorevoli che hanno partecipato al dibattito. Soprattutto se si osserva che, anche nel caso in cui quelle istituzioni intermedie (politici, stampa ecc.) fossero in grado di rappresentare correttamente il punto di vista della maggioranza, non è affatto detto che questa rappresenti davvero il bene comune e non invece il prevalere di una parte della società sull’altra. In questa fase, se vogliamo fare passi avanti, diamo quindi la parola a chi si occupa di etica, e non agli economisti.
A un passaggio logico, necessariamente successivo, anche se temporalmente urgente, potremo discutere con più chiarezza di come fare a salvare il posto di lavoro degli operai della Fiat e anche a migliorare le condizioni di lavoro delle giovanissime operaie di Dongguan.
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