La forza della televisione generalista è quella di raccogliere una comunità altrimenti distante e separata, di sincronizzare il quotidiano di milioni di persone, di offrire informazioni, testi e immaginari condivisi in modo trasversale. E questa potenza si è ritrovata tutta nell’istante in cui si è diffusa la notizia della morte di Raffaella Carrà, che con la televisione generalista si è identificata per almeno cinque decenni. I programmi tv in diretta stravolti e i recuperi d’archivio a rimpinguare scarni palinsesti estivi; le aperture delle testate online e le prime pagine dei quotidiani, anche sportivi, il giorno dopo; il flusso di coscienza di Facebook, di Twitter, di Instagram, persino di TikTok, altrimenti disperso in mille bolle e polemiche-del-giorno; e ancora i messaggi privati, le chiacchiere, qualche telefonata: un’elaborazione del lutto a reti e media unificati, come accaduto tante altre volte, ma qui con un’intensità e una partecipazione inedite.
Difficile trovare analogie, difficile racchiudere la molteplicità di un personaggio come Raffaella Carrà in poche parole e immagini, in un semplice profilo. Ecco allora l’uso un po’ pigro (e talvolta l’abuso) della parola «icona», corredata o meno da aggettivi. I momenti memorabili di una carriera memorabile. Le sigle, le canzoni, i versi che ognuno sa cantare. Il caschetto biondo, i corpi di ballo, le coreografie. Le fotografie, gli abiti, lo stile. Le interviste lungimiranti, l’impegno e la leggerezza. Dal recupero del provino d’ammissione al Centro sperimentale e degli esordi al cinema alle chiacchierate del suo ultimo programma, A raccontare comincia tu. L’Italia e la Spagna, Berlusconi e la Rai. Le clip delle tv straniere, lei ospite da Letterman. I ricordi e le nostalgie di tutti, veri o verosimili, diretti o mediati, in un continuo gioco di specchi.
Ci sono state mille Raffaella Carrà, ci sono ancora, resteranno. Centinaia di sfumature a dare significato pieno all’idea di popular culture, a garantire uno status unico, sapientemente coltivato, ottenuto e mantenuto con impegno e cura
Ci sono state mille Raffaella Carrà, ci sono ancora, resteranno. Centinaia di sfumature a dare significato pieno all’idea di popular culture, a proteggere un privato sempre rimasto tale, a garantire uno status particolare, unico, sapientemente coltivato, ottenuto e poi mantenuto con impegno e cura. E a fare da collante in questa molteplicità, da amplificatore di questa unicità, da approdo spesso sicuro, da coronamento a un talento e una progettualità dispiegati anche altrove è sempre stato il piccolo schermo. Possono bastare tre esempi tra i tanti, tre momenti in cui il percorso di Carrà e la storia della televisione (ma non solo: la storia dei media, quella del costume, forse quella tout court) si sono intrecciati.
1974, Milleluci. Il trionfo del varietà classico, di una televisione ancora in bianco e nero, scritta in ogni minimo dettaglio, provata e riprovata, e insieme il canto del cigno di un’offerta che di lì a poco sarebbe profondamente mutata, ottenendo più canali, la pubblicità libera dalla prigione di Carosello, i colori. Raffaella Carrà ci arriva dopo i trionfi di Canzonissima qualche anno prima, si trova accanto a Mina, alla pari, in quel genere che a lungo è stato di suo dominio totale, la regia è nelle mani di Antonello Falqui. Il risultato sono otto puntate a orologeria, dedicate ciascuna a celebrare una diversa forma di spettacolo, tra ospiti e canzoni, balletti, sketch, numeri vari. Il 6 aprile la televisione rivolge lo sguardo su se stessa, in occasione del ventennale delle trasmissioni regolari, presentando una sintesi fatta spettacolo della sua storia e delle sue potenzialità espressive: c’è l’occhiata alla «tv del futuro», con Adriano Celentano che canta Prisencolinensinainciusol, Raffaella che si scatena e un labirinto di specchi; c’è un Rischiatutto in versione parodica, con Mike Bongiorno che la apostrofa con «Signorina Pelloni» e i battibecchi con Mina quando il pulsante per prenotarsi (e rispondere a domande sulle rispettive carriere) non funziona granché; e c’è soprattutto una cavalcata solitaria di Carrà che ballando attraversa la tv intera, occupando gli studi del tg e i set degli sceneggiati, solcando agile sul chroma-key delle partite di calcio e di tutte le frattaglie della programmazione, dalle previsioni del tempo ai famigerati intervalli campestri. La Carrà di Milleluci è una professionista impeccabile nei tempi e nei toni, la modernità accanto a Mina già diventata tradizione, la scusa per sperimentare qualcosa nella gabbia festiva e dorata del sabato sera unico.
1984, Pronto Raffaella? Con il primo dei molti programmi che prenderanno nel titolo il suo nome vero o il cognome d’arte, Raffaella Carrà conquista porzioni inedite del palinsesto televisivo, aprendo lo spazio del mezzogiorno con una produzione originale, in diretta, ogni giorno. Nel giro di pochi anni i media e la società sono cambiati profondamente, e così i lustrini dell’evento festivo diventano i lustrini, un po’ meno eccezionali ma sempre speciali, della quotidianità feriale. La televisione occupa ogni anfratto del nostro tempo, si inserisce senza più remore nelle nostre abitudini, combatte per le nostre attenzioni. La Rai, con la regia di Gianni Boncompagni e la scrittura di Giancarlo Magalli e Irene Ghergo, con la star che apre le porte di un salotto sotto steroidi, coloratissimo, con terrazza aperta su panorami di plastica, impunemente artificiale come solo la tv dei primi anni Ottanta sapeva essere, sfrutta il vantaggio della diretta che i network di Berlusconi non potevano avere e apre al dialogo diretto con gli spettatori. Ecco le telefonate da casa, lo small talk elevato a sistema, la chiacchiera che a volte è pura ricerca di contatto e altre, complice l’abilità (sovr)umana e iper-umana della conduttrice, riesce ad aprire squarci di realtà. Ecco la conta dei fagioli nel barattolo, la ripetizione, la ritualità, il trucco perfetto perché ci sia una scusa per seguire con attenzione, per ritornare lì davanti. La neo-televisione, ha scritto Umberto Eco l’anno prima, porta il mondo fuori negli studi televisivi, mette tutto sotto la stessa luce artificiale. E l’incontro-scontro tra esterno e interno, tra realtà e rappresentazione, trova rappresentazione plastica il 13 aprile, con l’intervista esclusiva di Raffaella Carrà a Madre Teresa di Calcutta: l’eccezionale e il banale, il sacro e il profano, la benedizione e l’applauso, l’inglese e l’accompagnare lo spettatore passo dopo passo, la deferenza del primo canale nazionale e la malizia del camp. Tutto senza mai sbagliare tono.
L'incontro-scontro tra esterno e interno trova rappresentazione plastica con l’intervista di Raffaella Carrà a Madre Teresa di Calcutta: l’eccezionale e il banale, il sacro e il profano, la benedizione e l’applauso. Tutto senza mai sbagliare tono
1995, Carramba! Che sorpresa. Dopo polemiche sui compensi e passaggi in campo avverso, dopo Spagna e America Latina, il ritorno sull’ammiraglia Rai di Raffaella ha il sapore della rivincita e del trionfo. E ancora una volta segna una svolta, nella sua carriera ma pure nella televisione. Lo spettacolo puro lascia il posto a quello delle emozioni (emotainment), il dialogo al telefono è sostituito dalla presenza in studio, gli attori e i musicisti si scambiano continuamente di posto con la gente comune. Dopo Tortora e prima della De Filippi, è per la Carrà che le persone qualunque si vestono da festa e si lasciano sorprendere, travolte da reazioni ancora piuttosto sincere, poco consapevoli delle grammatiche televisive. Carramba è fucina di neologismi (carrambata, gancio), di espressioni enfatiche («è qui…»), di parodie. E soprattutto è una televisione ancora una volta ricca, scritta, pensata (con Sergio Japino, Brando Giordani, Giovanni Benincasa e altri), dove i piccoli desideri e i grandi eventi delle vite messe in scena diventano materiale sia narrativo sia spettacolare, in una concatenazione di sorprese inserite una dentro l’altra, una accanto all’altra, con gran dispiego di forze tecniche e di risorse economiche. Nella prima puntata, 21 dicembre, riproposta da Raiuno il giorno della morte, la promozione del nuovo film di Carlo Verdone (Viaggi di nozze) è interrotta per spostarsi in un cinema che proietta lo stesso film, dove uno spettatore scoprirà – tra il primo e il secondo tempo – che sta per diventare padre, e una spettatrice sarà richiamata in studio per una futura sorpresa. Il volto imbambolato di chi non se lo aspetta, da un lato, e dall’altro la risata sicura di chi ha nella sua cartelletta i segreti di tutti i presenti. Ancora una volta: spettacolo, invenzione, dominio dei tempi, controllo dei toni, professionalità estrema, familiarità costruita e naturale insieme.
Mike Bongiorno, letteralmente il primo conduttore italiano, è stato il fondatore, l’inventore delle regole, la norma stessa nel suo farsi. Raffaella Carrà è stata, invece, lo spingersi costante ai confini delle regole, e talvolta anche oltre, la creatività che arriva a toccare i margini per poi ritornare al centro, un’eccezione sempre però vicina, rassicurante, familiare. Come l’ha definita Renzo Arbore in uno dei suoi ricordi a caldo, centrando perfettamente il punto, la Carrà era una «rivoluzionaria popolare». Capace di portare avanti istanze di modernità estrema senza farlo neppure notare, senza allontanare nessuno, affidandosi a una frase, a un vestito, a un gesto, a cose apparentemente banali. Abile nel nascondere tutto lo studio e nel far sembrare ogni cosa eccezionale e insieme semplice, alla portata di tutti: alto e basso, arte e commercio, avanguardia e mainstream. Sempre pronta a cambiare, sintonizzandosi in anticipo su una tv e una società che cambiano, senza però mai dimenticarsi di condurre il pubblico con sé, in questi esperimenti, in questo futuro. Forse è questo uno dei segreti che spiegano un cordoglio tanto universale, di tutti, immediato, ampio e senza eccezioni. Di certo è questa la sua eredità più importante.
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