Ventidue anni or sono, in una sera di quei giorni di quasi primavera che seguono le idi di marzo, un piccolo gruppo di efferati criminali, esaltati da un’ideologia demenziale, uccise vigliaccamente, mentre in pace ritornava a casa dal lavoro all’università, Marco Biagi, abbandonato nelle strade crepuscolari del centro di Bologna da uno Stato del quale si presentava attento servitore. Tutto – o quasi – sappiamo della sua morte assurda e crudele, e non di questa voglio dunque qui celebrare il ricordo, piuttosto di alcuni tratti della sua vita e del suo lavoro: lo farò riandando anche alle parole che a lui furono dedicate da compianti comuni amici, tutti noi accomunati dalla radice accademica, che non era – o forse è stata solo per un breve tempo felice – una scuola, nel corrotto e deteriore senso generale acquisito nei decenni più recenti.
Marco Biagi si era laureato nel 1972 in Giurisprudenza a Bologna, dove era nato ventidue anni prima, discutendo una tesi in diritto del lavoro con Federico Mancini, uno di quei giovanotti che nel 1951 avevano dato vita a questa rivista. La successiva carriera accademica, scandita dalla pubblicazione di numerosi scritti su periodici e volumi collettanei – oltre alle principali monografie sulla dimensione dell’impresa nel diritto del lavoro, sulle cooperative, su sindacato democrazia e diritto –, dalla edizione di un manuale della materia, dall’insegnamento in varie università, lungo l’itinerario assistente-professore incaricato-associato, è culminata nel 1986 con la vittoria del concorso a cattedra e l’inquadramento nell’Università di Modena. Lungo lo svolgimento della carriera e della vita accademica, Marco era stato chiamato a numerose prestigiose collaborazioni a livello nazionale ed europeo.
Non è questa comunque la sede per ripercorrere la sua biografia scientifica, ricca di studi, risultati organizzativi e impegni istituzionali; accennerò bensì solo a profili della sua vicenda umana e professionale.
«Mite. Amabile. Signorile»: con questi tre aggettivi che esauriscono il primo capoverso dello scritto, Umberto Romagnoli inizia il ricordo di Marco che pubblica sulla rivista “Lavoro e diritto”. Non c’è dubbio che queste fossero le caratteristiche del modo con il quale Marco si accostava alle altre persone: non artificio o ipocrisia perbenista ma spontaneo rispetto ed eguale considerazione dell’altra persona. Ma ciò che era per qualche verso singolare in lui, era che tale caratteristica conviveva con una rocciosa determinazione nel perseguimento dei propri obiettivi, ambiziosamente fissati in traguardi, di tempo in tempo considerevolmente alti e significativi. È bene precisare: l’ambizione non è grave peccato di presunzione ma positivo desiderio di fare e fare bene – così la pensa insieme a Marco anche chi scrive – e in lui era coniugata con uno spirito competitivo di matrice sportiva. Intendo, con quest’ultima precisazione, il misurarsi con i limiti propri e assoluti e non l’umiliazione del concorrente.
Mi piace a questo proposito ricordare un episodio del quale sono stato diretto testimone – ma non partecipante, come si capirà – citato da Marcello Pedrazzoli (un altro di “noi”) nella intensa memoria pubblicata dopo l’assassinio. In poche ore, in una giornata dell’estate del 1986, Marco percorse in bicicletta i circa 120 chilometri, andata e ritorno, dai 700 metri s.l.m. di una località della Val di Sole al passo del Tonale (m. 1.884), discesa a Ponte di Legno (m. 1.258) e salita al passo Gavia (m. 2.618). Disse semplicemente: «L’aveva fatto mio padre, volevo farlo anch’io».
La sua ambizione più alta è stata di carattere sociale. Di quella socialità ispirata a due grandi correnti ideali: al solidarismo cristiano e al laburismo socialista
La sua ambizione più alta è stata di carattere sociale. Di quella socialità ispirata a due grandi correnti ideali: al solidarismo cristiano e al laburismo socialista. Su questi fondamenti Marco non poteva certo crescere come un giurista Ancien régime, confinandosi in uno studio esegetico positivista dell’ordinamento dato: il suo orizzonte era la comprensione per la trasformazione. Beninteso del primo termine – la comprensione – faceva parte, a fianco di una inappuntabile capacità di ricostruzione dogmatica, una vasta e approfondita conoscenza comparatistica, patrimonio imprescindibile per un giurista che si voleva impegnato sul piano dell’ordinamento europeo. In una parola dunque il suo orizzonte era la “politica del diritto”; così ebbe a definirlo Federico Mancini – come ricorda Luigi Mariucci - «Marco è quello che ha più [degli altri] il senso della concretezza», ove il termine di comparazione è rappresentato dal gruppo di (allora) giovani raccolti dal “capostipite” «in quella cosa meravigliosa, libera e quasi anarchica che fu all’inizio la “scuola di diritto del lavoro” di Bologna». Concreta politica del diritto, dunque preciso impegno riformatore: questo il quadro ideale di azione di Marco.
Gli stessi fondamenti ideali gli avevano fatto considerare l’occupazione, la possibilità per il cittadino di trovare un lavoro, come il punto focale e di crisi della società italiana, nel quadro di quella europea più complessivamente considerata, negli anni attorno al passaggio del millennio e non c’è dubbio come in questo avesse colto senz’altro nel segno. Il riformatore concreto elabora a questo proposito una “idea semplice” – secondo la sintesi di Luigi Mariucci – «la riduzione generalizzata delle tutele dei lavoratori [come] mezzo efficace per promuovere l’occupazione», sia sul versante dell’accesso al lavoro – tipologie di assunzione – sia della cessazione – tipologie di licenziamento. Il quadro dunque di «buone intenzioni – ancora Mariucci –: la moltiplicazione delle figure lavorative di tipo flessibile era infatti immaginata allo scopo di attivare la dinamica della occupazione introducendo nel contempo tutele nel mercato del lavoro attraverso i meccanismi di sostegno al reddito e la riforma degli ammortizzatori sociali». La follia omicida impedì poi a Marco di vedere e valutare che cosa la politica – così attenta a quel suo accurato e appassionato civil servant da lasciarlo del tutto indifeso – avrebbe fatto e come attuato quell’“idea semplice” e a ben guardare generosa.
Si avverte ancor più acuta la mancanza, oggi, delle analisi che saprebbe dedicarci per comprendere un diritto del lavoro che negli ultimi vent'anni ha consentito che i salari dei lavoratori italiani si depauperassero in termini vergognosi
Fui tra coloro che criticarono aspramente quel programma di politica del diritto, senza che ciò appannasse l’amicizia personale che ci aveva legato, e non è certo questo ricordo l’occasione di ripensamenti; né è l’occasione per attribuire a chi non può confermare e neppure smentire pensieri e opinioni diverse da quelle che appaiono dagli scritti che possiamo leggere. Ma, proprio per questo, credo che sarebbe importante che qualcuno si prendesse il compito di rileggere attentamente tutta l’opera di Marco Biagi e non solo gli scritti del periodo più politicamente – e polemicamente – caratterizzato. Nutro la ragionevole aspettativa che ne uscirebbe la figura di un giuslavorista assai più articolato dell’immagine che molti, ma non tutti – da una parte e dall’altra – hanno voluto appiccicargli addosso. E si avvertirebbe ancor più acuta la mancanza, oggi, delle analisi che saprebbe dedicarci per comprendere un diritto del lavoro che nello scorcio di secolo che abbiamo vissuto dopo di allora, ha consentito – a tacere d’altro – che i salari dei lavoratori italiani si depauperassero in termini vergognosi rispetto non a un improbabile Paese di Bengodi ma a vicini e comparabili partner europei.
La “concretezza” di Biagi, così acutamente colta subito da Mancini, gli facilitò il compito di “organizzatore” di studi e la sua eredità è stata raccolta e perpetuata nel lavoro della Fondazione che porta il suo nome e che continua a essere un centro di formazione e importanti studi giuslavoristici. E altrettanto dicasi della rivista internazionale, con base a Modena, da lui fondata e alla cui direzione si sono succeduti tra i più significativi studiosi di tutto il mondo. E anche l'Associazione internazionale delle riviste giuslavoristiche, tuttora operante e che ogni anno bandisce un riconoscimento internazionale per studi di giovani lavoristi che si onora del suo nome, fu immaginata da Marco e poi sviluppata quando ancora faceva parte del gruppo di “Lavoro e diritto”.
In questo credo che appaia in tutto il suo valore che cosa significhi l’opzione della “concreta politica del diritto” che ha segnato profondamente la vita e l’opera di Marco, e dunque il carattere preciso del suo lascito. Il giuslavorista è, ancor più di altri specialisti di diverse articolazioni degli studi giuridici, un progettista di applicazioni concrete e, ancora una volta più di altri, più spesso di applicazioni collettive piuttosto che individuali e dunque sovente di applicazioni generali e astratte, dunque di soluzioni legislative. Ecco perché la “politica del diritto” appare fatta per buona parte della stessa materia di cui è fatto il diritto del lavoro: in fondo quando Lodovico Barassi, il cosiddetto padre fondatore, scriveva, alla fine dell’Ottocento, il ponderoso tomo intitolato Il contratto di lavoro nel diritto positivo italiano non esistendo nel diritto positivo italiano alcun contratto di lavoro, non faceva altro che, appunto, una operazione di “politica del diritto”.
Marco, come altri di quella stagione del “diritto del lavoro insanguinato” (ancora Mariucci), tale figura l’ha interpretata al massimo livello, sia come suo impegno sia come riconoscimento ricevuto dalla res publica: peccato che la politica della stessa Repubblica invece non seppe o non volle difenderlo dall’aberrante riconoscimento criminale.
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