Italo Calvino salutò «un intellettuale nuovo» nel coetaneo Rocco Scotellaro, ricorda l’italianista Franco Vitelli, che ha curato la ripubblicazione delle opere scotellariane insieme a Giulia Dell’Aquila e a Sebastiano Martelli (Mondadori, 2019). Nuovo perché? «Capace di coniugare in forma unitaria il momento della rivolta contadina, l’azione sindacale, la ricerca antropologica, la poesia e il romanzo», specifica Vitelli. Nel 2023 c’è stato un importante revival divulgativo calviniano, mentre alcuna rievocazione o quasi è toccata a quest’uomo che tutta la nostra attenzione meriterebbe, scomparso nel 1953 appena trentenne.
Sì, per il centenario qualche convegno si è tenuto nella sua Basilicata, in particolare a Matera dove in questi giorni è in programma un’ultima sessione dedicata a «Scotellaro e il cinema», coordinata da Martelli e da Goffredo Fofi. Sì, i giovani registi Alessandra Lancellotti ed Enrico Masi sono al lavoro per dedicargli un film che seguirà il loro bellissimo Lucus a Lucendo. A proposito di Carlo Levi (2019), quasi mezzo secolo dopo lo Scotellaro televisivo di Maurizio Scaparro con protagonista Bruno Cirino. Quanto al teatro, Nichi Vendola in coppia con Carmela Vincenti sta portando in scena il recital È fatto giorno. Un secolo di Scotellaro (produzione Fidelio). E studiosi quali l’economista Pier Giorgio Ardeni o lo storico Vito Antonio Leuzzi ne approfondiscono la qualità politica, il suo «antagonismo», in relazione alle inchieste sul campo di Ernesto De Martino, Tommaso Fiore e Vittorio Bodini, oltre che agli orizzonti sindacali di Giuseppe Di Vittorio e delle «Assisi del Mezzogiorno» (1949-50). Ma non basta, diremmo. La figura di Scotellaro è ancora «di nicchia», è quasi un culto per talune minoranze meridiane, però rimane pressoché sconosciuta nella cultura italiana, per non parlare delle antologie scolastiche che lo ignorano. Un sorriso spezzato.
«Venga il mattino per i giovani del 1953 / e sulle bocche arse rispunti il sorriso», aveva scritto Rocco poco prima che un infarto lo stroncasse il 15 dicembre 1953 a Portici (Napoli). Vi si era trasferito nel 1950 per collaborare all’Osservatorio di economia agraria diretto da Manlio Rossi-Doria, concependo colà l’ambizioso progetto di Contadini del Sud, che, in stadio embrionale, sarebbe apparso postumo nei «Libri del Tempo» di Laterza nel 1954. Portici fu un «esilio» dalla politica, come riconobbe per primo Carlo Muscetta; non certo dall’impegno in favore dei contadini lucani. A loro Scotellaro, nato a Tricarico (Matera) il 19 aprile 1923, votò le sue energie in un passaggio storico decisivo: la guerra, la Liberazione, le lotte per la riforma agraria, e, non da ultimo, la pubblicazione di Cristo s’è fermato a Eboli di Carlo Levi (Einaudi, 1945), «il più appassionato e crudele memoriale dei nostri paesi». Quelle pagine folgorarono il giovane, figlio di piccoli artigiani (padre calzolaio, madre sarta e scrivana per conto dei vicini), con salde radici nel popolo di cui narravano. Un secolare silenzio s’infrangeva e il Cristo del medico torinese confinato dal fascismo in Basilicata offriva finalmente una voce e un rilievo a un mondo altrimenti serrato in sé stesso fra dolore e rancore. Ma ciò avveniva mentre quel mondo era ormai prossimo a finire: una nuova massiccia ondata emigratoria l’avrebbe desertificato (il titolo del capolavoro di Luchino Visconti, Rocco e suoi fratelli, del 1960, rende omaggio a Scotellaro) e l’omologazione «televisiva» ne avrebbe edulcorato i costumi in un innocuo folklore, e quindi fagocitato lo spirito.
Va ricordato che il titolo del capolavoro di Luchino Visconti, Rocco e suoi fratelli, del 1960, rende omaggio proprio a Scotellaro
Levi ricorda il Sud «da lontano», Scotellaro ne prevede l’elemento drammatico di una falcidia che avanza oltre Eboli. Un orizzonte terminale iscrive l’opera di Scotellaro come un presagio cui ribellarsi fin dall’iscrizione aurorale sulla copertina della raccolta È fatto giorno (Mondadori 1954, premio Viareggio). Ecco Sempre nuova è l’alba (1948):
«Non gridatemi più dentro, / non soffiatemi in cuore / i vostri fiati caldi, contadini. / Beviamoci insieme una tazza colma di vino! /che all'ilare tempo della sera / s’acquieti il nostro vento disperato. / Spuntano ai pali ancora / le teste dei briganti, e la caverna - / l’oasi verde della triste speranza - / lindo conserva un guanciale di pietra… / Ma nei sentieri non si torna indietro. / Altre ali fuggiranno / dalle paglie della cova, / perché lungo il perire dei tempi / l’alba è nuova, è nuova».
Scotellaro confidò di mitigare il perire dei tempi al sol dell’avvenire. Nel 1943 si iscrisse al Partito socialista italiano e nel 1946 venne eletto sindaco di Tricarico alla testa di una lista unitaria di sinistra sotto il simbolo dell’Aratro; il primo cittadino più giovane (aveva ventitré anni) della neonata Repubblica. Del 1948 è la «pozzanghera nera» del 18 aprile, titolo di una sua poesia sulla sconfitta elettorale del Fronte popolare, che provocò una crisi interna alla maggioranza comunale, ma, nelle nuove elezioni di novembre, Scotellaro ottenne la riconferma. Nel 1950 una disavventura giudiziaria gli costò quaranta giorni di carcere a Matera, prima che fosse riconosciuto estraneo all’episodio di concussione, e, anzi, vittima di «una vendetta politica» come recitava l’atto di proscioglimento della Sezione istruttoria della Corte di Appello di Potenza (sulla prigionia sono preziosi i documenti e gli inediti raccolti in Il prezzo della libertà. Lettere da Portici, a cura di Pasquale Doria, Giannatelli, 2015). La vicenda, rievocata nell’Uva puttanella (Laterza, 1955) incise su Scotellaro, che un mese dopo lasciò la carica e partì per Roma e da lì, appunto, alla volta di Portici.
Nei quattro anni da amministratore, il «sindaco discolo» o «Pelo rosso» – come lo chiamavano nelle stradine della Rabata, l’ancestrale rione tricaricese – ispirò la sua azione ai criteri che oggi verrebbero ascritti alla «cittadinanza militante» e a una vita activa di là dall’essere teorizzata da Hannah Arendt (1958). Scotellaro ebbe modo di sintetizzarli in un convegno a Brindisi nel 1950: «Abitudine alla collaborazione; apprendimento della vita: i nostri maestri sono i contadini; la ribellione e il perdono; la pace e il lavoro…». Colpisce l’inserimento del «perdono» nell’agenda politica locale, un tema della riflessione filosofica europea ben oltre l’amnistia togliattiana riservata a quanti s’erano compromessi col fascismo. D’altro canto, Scotellaro si spese molto per migliorare in concreto condizioni di vita nel suo paese, come ebbe a ricordare Rossi-Doria nel convegno torinese per il ventennale della morte di Rocco (23 febbraio 1974). Si citavano, fra l’altro, le concessioni delle terre «che hanno tratto dalla fame più di cento poveri braccianti», le strade costruite nelle campagne, la refezione scolastica per quattrocento alunni, la «possibilità del funzionamento di un ospedale a Tricarico» (grazie al sodalizio col medico-mentore Rocco Mazzarone, una personalità straordinaria, scomparso nel 2005).
Contemporaneamente Scotellaro scriveva. Poesie, racconti, interventi, memoriali, l’abbozzo del romanzo autobiografico il cui titolo avrebbe eternato una metafora di generosa incompiutezza, L’uva puttanella. Ne spiega il significato negli appunti preparatori: «Questi sono acini piccoli, apireni, seppure maturi che andranno egualmente nella tina del mosto il giorno della vendemmia. Così il mio paese fa parte dell’Italia! Io e il mio paese meridionale siamo l’uva puttanella, piccola e matura nel grappolo per dare il poco succo che abbiamo». Una metamorfosi simbolica che, secondo l’antropologo Giovanni Battista Bronzini, a dispetto dell’impianto verghiano, è espressamente ispirata al Kafka del Processo: «C’è in comune l’assunzione, sul proprio non-essere, di tutto il negativo della civiltà» (Dedalo, 1987).
Ma la sua breve e febbrile stagione è pur sempre compresa nel dopoguerra italiano ibernato nelle certezze ideologiche della Guerra fredda. Una temperie che spregiava i tormenti individuali non estranei al giovane autore lucano. Il primatista del dibattito culturale d’area Pci, Mario Alicata, rigettò con veemenza la lettura del Mezzogiorno «come un enigma ancora da decifrare, come una terra arcana e misteriosa ancora tutta da studiare …» (Il meridionalismo non si può fermare a Eboli, «Cronache Meridionali», 1954). Perciò Alicata demolì Scotellaro per «i tempi poetici nient’affatto contadini, cioè popolari, ma invece propri di una tradizione letteraria aristocratica, com’è quella della poesia decadente contemporanea, e nei quali perciò si ritrova, accanto a un po’ di Saba e un po’ di Montale, addirittura moltissimo Sinisgalli». Addirittura. Né, allora e in seguito, sarebbero stati più indulgenti gli «eretici» della sinistra, da Pier Paolo Pasolini ad Alberto Asor Rosa, a Rossana Rossanda. Certo, non mancarono reazioni di segno diverso. Eugenio Montale sul «Corriere della Sera» nell’ottobre 1954 riconobbe l’originale impasto di vena «popolare» e vena «internazionale» in Scotellaro, proiettandolo verso uno scenario molto meno asfittico, in cui Geno Pampaloni lo avrebbe collocato vicino ad Alvaro e a Pavese nella «cultura della crisi».
L’esperienza di Scotellaro fu affannosamente scandita dalla volontà di rimanere fedele a una missione politica dai toni salvifici, talora evangelici (aveva pur sempre studiato in seminario) e alla «grande narrazione» della cosiddetta «autonomia contadina»: «È fatto giorno, siamo entrati in giuoco anche noi / con i panni e le scarpe e le facce che avevamo». Nei suoi testi riecheggiano i movimenti di un Sud davvero tellurico con le «eterne» stasi e le improvvise tragiche esplosioni, ma anche l’approccio «microstorico», al tempo stesso antropologico e lirico, dell’inchiesta laterziana sui braccianti di quattro regioni meridionali (Puglia, Campania, Basilicata, Calabria). Resta che l’impegno politico socialista, puntualmente letto come un movimento spontaneo o un’innata inclinazione di Rocco «sindaco e poeta contadino», meriterebbe almeno il sospetto di una dialettica identitaria più complessa della immaginetta da «santino proletario».
L’etica per Scotellaro è un destino, l’impegno è «inevitabile» ed ecco la politica, la mediazione con/nella realtà, sebbene una certa insofferenza affiori nel suo epistolario verso il dovere di presenziare a un consiglio comunale a Tricarico, mentre a Roma quel giorno potrebbe essere decisivo perché De Sica, Rossellini, Coletti si convincano finalmente a battere il primo ciak di una delle sue sceneggiature rimaste sulla carta. Una velleità cinematografica, tale resterà in assenza di un set, che contribuisce a rivelare nell’estetica la passione vera, la più istintiva e la più feconda di Rocco. Allora, quanta umanità e quanta contemporaneità gli doneremmo riconoscendo un tormento, un’indecisione, il «distrarsi al bivio» nel passo doppio della sua vita fra politica e scrittura: la prima amarissima fino all’onta del carcere, la seconda celebrata solamente postuma.
Sì, questa lacerazione o presunta «debolezza» è in realtà la forza viva di un autore polifonico nella scrittura (inchiesta sul campo, poesia, memoriale, cinema, teatro, pubblicistica, reportage sociologico), a caccia dei talenti, delle voci del suo mondo, perché parimenti a caccia del proprio talento, di un’America interiore, di un’anelata lontananza non meno cogente dell’appartenenza meridionale. «Io sono un filo d’erba / un filo d’erba che trema. / E la mia Patria è dove l’erba trema. / Un alito può trapiantare / il mio seme lontano» (La mia bella patria, 1949).
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