Quando Judith Shklar comincia a parlare di crudeltà e di paura negli anni Ottanta del secolo scorso, il mondo occidentale non presta attenzione. La studiosa è affermata. Ha insegnato ad Harvard per più di due decenni e ha pubblicato studi su Hegel, Rousseau e la filosofia del diritto. Con un ritardo di molti anni a causa del suo essere donna, la prestigiosa università le ha conferito il ruolo di professoressa ordinaria nel 1981. Ma crudeltà e paura non fanno parte del panorama politico di quegli anni. I telegiornali trasmettono notizie di guerre civili e occupazioni militari, ma quegli eventi sono troppo lontani per catturare l’interesse di una società occidentale, se mai preoccupata dallo smantellamento dello Stato sociale a opera di governi liberisti. Per Shklar, tuttavia, è difficile scrollarsi di dosso paura e crudeltà, anche dopo decenni di sicurezza e vita normale. Shklar nasce nel 1928 a Riga, in Lettonia, da una famiglia ebrea benestante. Nel 1939 fugge in Svezia con la sua famiglia e in seguito a un viaggio rocambolesco attraverso l’Unione Sovietica e il Giappone, approda finalmente negli Stati Uniti e poi in Canada.
Morta prematuramente nel 1992, Shklar deve la sua fama principalmente ai suoi studi sulla storia delle idee e al fatto di essere stata una formidabile mentore per una generazione di studiosi e studiose americane molto influenti. Con il passare degli anni e con l’incupirsi del panorama politico anche in Occidente, tuttavia, le sue riflessioni poco sistematiche sono diventate oggetto di nuova attenzione.
Stanley Hoffmann ha identificato in un bell’articolo su Shklar scritto pochi mesi dopo la sua scomparsa, tre periodi nell’opera shklariana. Il primo di critica, che comprende i primi due testi After Utopia (Princeton University Press, 1957) e Legalism (Harvard University Press, 1964). Il secondo, di esegesi e interpretazione dell’opera di altri scrittori come Rousseau ed Hegel, e il terzo nel quale Shklar mette a frutto gli studi di una vita per offrire un’idiosincratica riarticolazione del liberalismo. Mi sembra una tripartizione azzeccata, ma qui mi voglio soffermare su alcuni temi che hanno caratterizzato tutto l’arco intellettuale di Shklar.
Shklar deve la sua fama principalmente ai suoi studi sulla storia delle idee e al fatto di essere stata una formidabile mentore per una generazione di studiosi e studiose americane
Il primo è la convinzione che si debba agire politicamente per arginare crudeltà e ingiustizia. Shklar aveva portato alla stesura della sua tesi di dottorato, Fate and Futility: Two Themes in Contemporary Political Theory, poi pubblicata come After Utopia, una profonda coscienza della capacità umana di fare il male, e una necessità di comprenderla e contrastarla. Critica di quelle teorie che vedevano un legame tra la filosofia illuminista e il totalitarismo, Shklar era sedotta dalla fiducia illuminista nella possibilità di forgiare il proprio futuro secondo i propri desideri, ma era convinta che nella seconda metà del ventesimo secolo non si potesse abbandonarsi a tale fiducia.
Nonostante un ragionato scetticismo per la fiducia illuminista, tuttavia, la politica della disperazione e dell’inattività le sembravano assolutamente da evitare.
Nella tesi di dottorato troviamo un’accesa critica al liberalismo conservatore e al suo sospetto verso l’azione politica, critica che in After Utopia viene sviluppata anche contro altre scuole di pensiero che vedevano gli esseri umani in balia di forze storiche, culturali ed economiche fuori dal loro controllo. La critica al liberalismo conservatore viene ripresa anche in Legalism, dove la dignità della politica viene difesa anche da una pretesa supremazia della teoria legale. I dettami contro la crudeltà e l’ingiustizia vengono poi sviluppati compiutamente in The Liberalism of Fear e in The Faces of Injustice (Yale University Press, 1990). Nel primo testo Shklar propone un liberalismo, erroneamente identificato come conservatore da molti interpreti, che mette al primo posto tra i mali la crudeltà, definita come “l’infliggere dolore fisico, e secondariamente emotivo, nei confronti di una persona o un gruppo più deboli, da parte di una persona o di un gruppo più forti, per ottenere uno scopo tangibile o intangibile di questi ultimi”. In The Faces of Injustice, invece, Shklar sposta caratteristicamente l’attenzione dalla giustizia – tema dominante della filosofia politica anglosassone dalla pubblicazione di A Theory of Justice di John Rawls (Belknap Press, 1971) – all’ingiustizia, mettendo in primo piano le rivendicazioni di attori politici sistematicamente esclusi dall’impianto politico e teorico del liberalismo.
Il secondo tema è quella resistenza a ciò che viene dato per scontato e indiscusso, che lei stessa chiamava scetticismo. Shklar scrive di sé alla fine della sua autobiografia (A Life of Learning) che è stata spesso spinta a opporsi non solo a teorie che riteneva sbagliate, ma anche a teorie troppo alla moda. Nozioni e dottrine prevalenti, la compiacenza, il conforto metafisico e la protezione offerta sia dalla disperazione sia dall’ottimismo erano ciò che la provocava intellettualmente. Abbiamo quindi nell’opera di Shklar un patrimonio di spunti per il contrasto a una critica della modernità che mette la religione, l’economia e le intuizioni di pochi al di sopra della politica (After Utopia); per la critica a un’ingenua fiducia che la legge sia incontaminata da istanze politiche e morali (Legalism); per la critica alla virtù come concetto politico fondamentale (Ordinary Vices, Belknap Press, 1984); per la discussione scettica di interpretazioni del liberalismo che lo vedono ambizioso e onnipresente nella politica occidentale o quantomeno statunitense (The Liberalism of Fear); per una riflessione sulle potenzialità emancipatrici del concetto di ingiustizia a fronte di un’ossessione per quello di giustizia; e per una pausa rispetto alle celebrazioni del concetto di cittadinanza, con un incoraggiamento a guardare a tutti quelli che ne sono esclusi (American Citizenship, Harvard University Press, 1991). Lo scetticismo fu anche una formidabile arma interpretativa per Shklar, che amava dare preminenza ai testi degli autori sui quali scriveva usando proprio questi testi contro chi reclutava quegli autori a padri o madri di varie ideologie da esaltare o smantellare.
Si è detto che Shklar proponeva una politica “negativa”, di difesa, reattiva. Su questo si basa l’intervento di Michael Walzer nella collezione di saggi in onore di Shklar pubblicata alla fine degli anni Novanta (Liberalism Without Illusions, University of Chicago Press, 1996). Secondo Walzer, Shklar era preoccupata di porre barriere, soprattutto a difesa dell’individuo, senza prestare troppa attenzione a ciò che quelle barriere avrebbero dovuto proteggere. Questa, che Walzer rivolge a Shklar come critica, si sta rivelando nei nostri tempi distopici e postmoderni una delle caratteristiche che la rendono più rilevante nel panorama filosofico contemporaneo. Shklar aveva compreso che una filosofia e una politica che si mettano a protezione dell’individuo non sono affatto minimaliste, ma sempre occupate e all’erta rispetto alle minacce del potere pubblico e privato.
Certamente Shklar condivideva con Isaiah Berlin il sospetto per una concezione “positiva” della libertà. Ma al contrario di Berlin era sensibile al fatto che in assenza di politiche pubbliche che consentano un effettivo esercizio della libertà, una pura libertà negativa si trasforma nella libertà di affondare nella povertà più abietta e incatenante (“Rights in the Liberal Tradition”). Chiunque abbia letto The Faces of Injustice, che traccia una strada di politica progressista che riduce via via lo spazio della “sfortuna” per trasformarla in ingiustizia, o gli interventi in American Citizenship, che propongono il diritto di voto e un lavoro pagato come tratti costitutivi del concetto di cittadinanza negli Stati Uniti, non può non riconoscere il peculiare “attivismo” di Shklar. La sua non è una politica di paura, à la Hobbes, ma di istituzioni che la prevengono.
Shklar aveva compreso che una filosofia e una politica che si mettano a protezione dell’individuo non sono affatto minimaliste, ma sempre occupate e all’erta rispetto alle minacce del potere pubblico e privato
Questo aspetto del pensiero di Shklar si chiarisce ulteriormente identificando un terzo tema nella sua opera, soprattutto negli scritti degli anni Ottanta e Novanta: quello della definizione di concetti politici fondamentali a partire da ciò che quei concetti escludono. Ho già accennato al riposizionamento dell’enfasi di Shklar dalla giustizia all’ingiustizia. Mi voglio brevemente soffermare qui sulle ultime riflessioni di Shklar sulla cittadinanza. Già critica di un concetto esclusivo e militaristico di cittadinanza, che aveva trovato in Rousseau ma anche nella tradizione repubblicana, negli ultimi scritti pubblicati postumi Shklar mette al centro delle sue ricerche – ancora una volta con incredibile anticipo rispetto agli sviluppi della storia – le figure dell’esule, del profugo e del rifugiato. Oltre alla sua esperienza personale, Shklar attinge alla storia e alla narrativa per introdurre all’attenzione dei suoi colleghi figure scomode e fuori posto per i pensieri dominanti del tempo, centrati proprio su diritti che derivano, nella realtà politica, dall’appartenenza a uno Stato. Introducendo queste figure, Shklar impercettibilmente scardina le coordinate tradizionali del liberalismo e lo forza a confrontarsi con limiti che lo mettono in contraddizione con se stesso. In questo modo, lo forza a vedere l’ingiustizia di quello che molti liberali, cittadini di Stati privilegiati, vedono invece come la sfortuna di essere nati o nate nel Paese sbagliato.
A posteriori, possiamo quindi rintracciare nel pensiero programmaticamente non sistematico di Shklar spunti fondamentali per la lettura del nostro presente. La sua insofferenza per i confini, concettuali, disciplinari e fisici, ne fa una pensatrice più attuale oggi che negli anni nei quali visse. Se in quegli anni la linfa vitale del pensiero politico erano le grandi costruzioni normative alimentate da un afflato prevalentemente analitico, nei nostri tempi, nei quali si moltiplicano le rovine, quello che è stato chiamato il “realismo” di Shklar, e la sua tendenza a partire fenomenologicamente dall’evento reale, dalle emozioni, dalle paure e dalle rovine stesse ci appare più che mai plausibile e necessario.
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