È appena uscito il nuovo libro di Telmo Pievani, che raccoglie alcuni dei suoi interventi pubblicati sul "Corriere della Sera" negli ultimi anni. Abbiamo colto l’occasione della presentazione del libro nella cornice del festival Pordenonelegge per dialogare con l’autore su alcuni temi legati alla sua attività di ricerca e divulgazione. Partendo ancora una volta dalla pandemia e dalle sue cause decisamente antropiche.
TELMO PIEVANI Il mestiere che faccio io, che è quello dell’evoluzionista, mi impone di ricordare che ci stiamo dimenticando una cosa molto importante e cioè che le pandemie ci sono sempre state, sono un fenomeno antichissimo. Però negli ultimi quarant’anni sono diventate molto più frequenti e pericolose. Non è un caso che siano aumentate in modo esponenziale. Perché non è un caso? Perché ormai abbiamo tantissimi dati che ci dicono che le pandemie sono più pericolose, contagiose e rapide, e che ci colpiscono molto duramente perché siamo noi a creare le condizioni perché questo succeda: siamo noi a creare delle nicchie che vengono chiamate antropiche e che vanno dai wet market al commercio di animali esotici, alla deforestazione. Sono tantissime le attività che favoriscono il salto di specie degli agenti patogeni. Insomma, ci stiamo facendo del male da soli.
Allora, qual è il rischio fortissimo che temo correremo adesso? Mi pare evidente: noi ci illudiamo che se ne esca soltanto emergenza per emergenza. Ora abbiamo avuto questa: per fortuna in 10 mesi abbiamo trovato i vaccini, ora dovremo fare richiamo ogni anno, verranno fuori delle varianti, ma impareremo a conoscerci. Diventerà una situazione quasi normale, un vaccino all’anno… e a posto così. Ma la probabilità che succeda di nuovo non si è allontanata di un millimetro, è rimasta la stessa. Quindi, d’accordo i vaccini, questa volta ne usciamo in questo modo, anche se avremmo potuto anche fare meglio: ad esempio, vaccinare tutto il mondo subito, e non soltanto la parte ricca del globo, lasciando che quella più povera rimanesse un serbatoio delle varianti. Ma questa è un’altra questione. La questione fondamentale è che per il futuro, se fossimo sapiens, dovremmo ridurre la probabilità che succeda di nuovo. Il che vuol dire stroncare il commercio di animali esotici, smetterla di deforestare, abolire questi wet market che non hanno alcun senso, smettere di ammazzare gli animali perché pensiamo che le scaglie del pangolino abbiano chissà quale valore afrodisiaco per noi maschietti ecc. Dovremmo ridurre le azioni che favoriscono le pandemie. Però questo è un discorso scomodo, perché per ridurre questi fattori occorre cambiare i nostri modelli di consumo, di commercio, di sviluppo. E questo non ci piace. Anche se ci converrebbe sul piano economico.
È stato fatto un calcolo da una rivista molto importante del gruppo di “Science” sei mesi fa che dice che l’investimento in prevenzione, cioè al fine di ridurre il rischio pandemico, è pari a un ventesimo di quello che ci costa affrontare una pandemia quando è già scoppiata. Ovvero, spendendo un ventesimo prima, poi ci guadagni, cioè eviti di pagare molto di più dopo. È chiaro che nessuno pretende che queste cose vengano fatte tutte insieme, ma se, per esempio, noi riducessimo progressivamente la deforestazione, combattessimo in modo molto più serrato il commercio illegale di animali esotici, decidessimo che questi wet market devono avere delle condizioni igieniche più stringenti, sarebbero tutti passi pragmatici in quella direzione e ognuno di essi ridurrebbe un poco la possibilità di avere un altro disastro di questo tipo. Ma quello della prevenzione è un nostro paradosso cognitivo: se io faccio prevenzione e questa funziona, l’evento negativo che volevo scongiurare in futuro non accade e quindi non capirò quanto è stato importante fare prevenzione; se invece faccio prevenzione e l’evento negativo accade comunque allora penserò che la prevenzione non sia servita a niente. La prevenzione ci viene difficile da accettare.
Dico due cose giusto per allarmare: “Nature” ha studiato il viroma dei coronavirus asiatici, in pratica la biblioteca genetica dei virus, scoprendo che in Cina ci sono cinquemila coronavirus molto simili a quello che ci ha colpito. Quindi c’è andata di gran lusso che non sia successo prima, perché di virus in giro ce n’è una marea. Inoltre, adesso pensiamo tutti ai virus, ma nel frattempo ci sono i batteri che sono l’altro lato del mondo microbico che stanno sviluppando resistenza a tutti gli antibiotici. Quindi, vogliamo continuare a rischiare così tanto e dover poi pagare in termini umani ed economici o è meglio lavorare sulla prevenzione? È questa la grande questione.
MARTINA NAPOLITANO Visto il peso delle questioni prettamente economiche che lei sottolinea, non trova più adatto anche a livello terminologico parlare – come propongono già alcuni studiosi – di capitalocene in alternativa ad antropocene?
TP Sì, sono d’accordo, diciamo solo che non mi piace tanto la rincorsa a questi neologismi, che sono tutti bruttissimi. Il termine antropocene ha un sacco di problemi, innanzitutto perché presuppone questa idea un po’ presuntuosa che l’era futura sia un’era ancora dominata dall’uomo. In realtà, l’uomo è una cosa tanto piccola dentro a una storia lunghissima. Sono d’accordo sul termine capitalocene da due punti di vista. Primo, perché antropocene – altro difetto di questa parola – suggerisce come messaggio implicito che la colpa ricada sull’umanità in quanto tale, cosa che non è; non è colpa dell’umanità in quanto tale, è colpa di una fetta dell’umanità, quella più ricca, mentre i restanti tre quarti, che possiedono molto di meno, hanno contribuito pochissimo al riscaldamento climatico. Quindi non è l’antropocene la causa di quello che è successo, ma è l’occidentalocene, potremmo dire, anche se è un termine ancora più orrendo. L’altro motivo per cui sono d’accordo con il termine capitalocene è che da tutto questo se ne esce non soltanto cercando soluzioni salvifiche tecnologiche, come qualcuno prospetta. Piuttosto se ne esce cambiando i modelli di consumo, di sviluppo, di crescita. Quindi è il capitalocene il problema, senz’altro. È il capitalismo come lo intendiamo noi oggi a essere sicuramente il grande fattore trainante di quello che sta succedendo, perché presuppone che la natura sia una risorsa. Presuppone che queste risorse debbano aumentare sempre di più, benché siano finite, e presuppone – e questa è la presunzione che hanno purtroppo ancora tanti economisti – che noi, attraverso l’innovazione tecnologica, riusciremo comunque a moltiplicare la capacità di produrre a parità di risorse, ma questo non è affatto dimostrato. Al contrario, è dimostrato che sia possibile se utilizziamo risorse rinnovabili, che non sono di nessuno, come il sole e il vento. Però si fa ancora molta fatica a far passare questa idea.
MN E cosa bisognerebbe fare per farci ascoltare di più da chi non vuole ascoltare? Sappiamo che alcuni discorsi sul tema sono molto polarizzati, la stessa Greta Thunberg è diventata ad esempio o la paladina per qualcuno o il diavolo per qualcun altro. Come si fa a far ascoltare chi non ascolta?
TP Ecco un’altra bella domanda. Prima della guerra in Ucraina avrei detto che dovevamo insistere molto perché il cambiamento fosse politico e fatto dall’alto, perché occorre essere molto realisti su queste questioni. Noi abbiamo a disposizione tanto potere dal basso per poter cambiare le cose, però i modelli ci dicono che alla fine i casi virtuosi, quelli che hanno avuto successo, sono partiti dall’alto. Si pensi, ad esempio, al buco nell’ozono, benché sia ancora un problema. Insomma, in quel caso il protocollo di Montréal ha funzionato, vi hanno aderito tutte le nazioni e in effetti stavamo per uscirne. Però, anche lì cosa è successo? C'è stato un protocollo internazionale, cioè ci si è messi intorno a un tavolo e si è deciso che “ragazzi, adesso cambiamo le filiere industriali e decidiamo che i clorofluorocarburi non si possono più espellere”, ci si è messi d’accordo tutti e così le cose hanno funzionato. Dunque, è stata una decisione top-down. Anche se non ci piace, deve essere la politica, come dire, a dare l’indirizzo.
Ora, stante la situazione attuale, è irrealistico pensare che possa succedere qualcosa di simile nei prossimi anni. C’è un blocco totale della governance internazionale, mentre dovrebbero esserci delle regole internazionali. È chiaro che dovrebbe essere l’Organizzazione mondiale della sanità, per esempio, a decidere in modo stringente delle regole, però dovrebbe anche farle rispettare e in questa fase storica questo è impossibile, perché non riusciamo a mettere intorno a un tavolo Cina, Russia, Brasile, India, Stati Uniti ed Europa.
Eravamo il Paese in Europa con la più alta percentuale di fotovoltaico rispetto al fabbisogno nazionale. Cosa è successo nel frattempo? Perché ci siamo persi? Sulla base di quali interessi economici ci siamo persi? Adesso ne paghiamo le conseguenze
L’Europa certamente può dare un esempio, anche se spesso si polemizza perché “vuole fare la prima della classe”. Però in effetti è l’Europa che ha le legislazioni più avanzate dal punto di vista ambientale. Durante la pandemia l’Europa ha anche fatto una mossa importantissima: ovvero ha capito che la transizione ecologica avverrà soltanto se accompagnata da un rimborso a chi dovrà pagare di più e ha di meno; ha capito che è fondamentale attutire gli aspetti sociali. L’Europa è avanti e, da questo punto di vista, l’Italia non è affatto messa male. Nonostante tutti i disastri che abbiamo, è il Paese con la più alta biodiversità in Europa e la più alta percentuale di aree protette in Europa. Dodici anni fa era anche il Paese in Europa con la più alta percentuale di fotovoltaico rispetto al fabbisogno nazionale. Cosa è successo nel frattempo? Perché ci siamo persi? Sulla base di quali interessi economici ci siamo persi? Adesso ne paghiamo le conseguenze.
A questo punto, io punterei invece su movimenti dal basso, che devono essere molto più forti, farsi sentire molto di più, rompere le scatole, creare quella che Jonathan Safran Foer ha chiamato una “ola sociale”: lo facciamo in dieci, lo facciamo in cento, lo facciamo in mille, poi, a un certo punto, lo stadio si alza e fa una ola. Ovviamente è solo una speranza, perché siamo dentro a dei paradossi dai quali è difficile uscire. Il peggiore di tutti è che se facciamo una tassa ecologica i gilet gialli tirano giù la Francia. Oppure che il primo movimento populista che arriva e che ci dice “ragazzi, ci penserò io e non vi farò pagare niente” vince le elezioni su questo inganno. E questo è un grosso problema, ovviamente, per le democrazie.
Inoltre, io sono convinto che bisogna aggiungere linguaggi nuovi per raccontare tutto questo. Ad esempio, per il progetto che ho fatto con Marco Paolini, in tv sui Rai 3, ho detto “Marco, spieghiamo il legame tra la deforestazione in Amazzonia e la terapia intensiva” e lui giustamente da grande artista, da grande narratore mi ha detto “guarda, devi scioccare, fai vedere una foto di una foresta amazzonica e fai vedere la foto di una persona che arranca, perché non riesce a respirare, intubato in una terapia intensiva. Così il pubblico si chiede cosa c’entrino queste due cose, e allo shock iniziale subentra la spiegazione scientifica che ti fa vedere i passaggi”. Dobbiamo trovare linguaggi nuovi, perché è chiaro che la scienza ha fallito nel raccontare in modo divulgativo queste cose. Ne parlavo con Piero Angela, che ricordiamo tutti con grande affetto, un anno fa. A un certo punto Piero si è messo lì e fa “ma quando è stata la prima trasmissione che ho fatto sul climate change?”. Ci ha pensato su un po’, ed è venuto fuori che era stato nel 1974, son passati cinquant’anni. È andato a rivedere la puntata e parlava di innalzamento dei mari, di riscaldamento climatico, le stesse parole in cinquant’anni. Quindi ci siamo guardati e ci siamo detti che abbiamo sbagliato qualcosa. Quando per cinquant’anni parli di una questione e questa non passa, vuol dire che evidentemente bisogna cambiare linguaggio.
MN Non volevo per forza tirare fuori la politica, visto che si sta per votare. Però sta di fatto che il clima è un argomento assolutamente non trattato da nessun partito politico, nonostante quello che abbiamo appena visto succedere nelle Marche o sulla Marmolada non molto tempo fa, episodi catastrofici che sono ormai all’ordine del giorno. Eppure, nessun partito (forse ad eccezione dei Verdi) sta affrontando l’argomento climatico in maniera seria, strutturata e argomentata. Cosa dobbiamo fare?
TP Nessuna tra le maggiori forze politiche lo mette al primo punto all’ordine del giorno. Ed è un grandissimo ritardo culturale, ma anche una furbizia. Alle forze politiche conviene molto di più far finta di stupirsi che ci sia un disastro naturale. Lo dico in modo molto polemico. Conviene loro far finta che non sapevamo che ci fosse un dissesto idrogeologico in Italia, far finta di non sapere che l’Italia è il Paese più vulnerabile al riscaldamento climatico in tutta Europa. Far finta di non sapere queste cose significa poi che quando succede qualcosa piangiamo le vittime, ci arrabbiamo inutilmente per il fatto che nessuno l’aveva previsto, quando in realtà sappiamo che non è possibile prevedere esattamente il punto in cui si scaricherà una bomba d’acqua. Però sappiamo che è più probabile che succederà e questo è più che sufficiente. Non c’è bisogno che ti dica, “guarda, succederà tra una settimana lì”; ti sto dicendo che è molto più probabile che, finita l’estate, finito un lungo periodo di siccità, ci saranno questo tipo di fenomeni estremi. Facendo finta di non sapere, cosa succede? Alla catastrofe naturale seguono sussidi, stato di calamità, soldi, debito. E questa è la spirale perversa che genera poi il consenso politico a chi lavora in quei territori ed è terribile tutto questo perché ancora una volta, come nel caso della pandemia, non abbiamo ridotto affatto la possibilità che succeda di nuovo.
MN Ammesso che nessuno faccia niente, che tutto continui così, quanto tempo abbiamo?
TP Questo lo sappiamo abbastanza bene. L’Ipcc ha già aggiornato adesso gli scenari, scenari che studiamo anche noi a Padova. Farò ora un video su una notizia, uscita su “Science” la settimana scorsa, che comunica una cosa molto semplice: gli accordi di Parigi sono saltati, ora “l'imperatore è nudo”. Ce lo dicevamo ormai da un po' di mesi, ma adesso è sancito ufficialmente: gli accordi di Parigi sono da archiviare, bisogna farne degli altri perché il grado e mezzo è inevitabile, non si può fare più niente. C'è una probabilità di più del 90% che arriviamo a due gradi e ormai possiamo fare ben poco, se non capire che i nostri figli vivranno in un mondo di due gradi, almeno, più caldo. E questo sappiamo cosa vuol dire: per l’Italia, in particolare, vuol dire che il Mediterraneo diventa un mare quasi tropicale, il clima sarà tropicale con lunghe estati torride e bolle di calore nelle città. Sarà un mondo nuovo. Gli animali e le piante si sposteranno. Questo succederà ovviamente non nel giro di pochi mesi, però quello che stiamo vedendo adesso è che il processo si sta auto-alimentando, quindi sarà un pochino più veloce di quanto gli stessi scenari nostri dicevano qualche anno fa. Bisogna rassegnarsi al fatto che vivremo in un mondo più instabile e quindi difficile, e avere l’intelligenza per abitarci, perché al momento stiamo facendo molto poco. Questo vale se, superata questa crisi, ci comportiamo bene, cominciamo ad accelerare la transizione ecologica. Se dovessimo invece fallire anche gli step successivi, si va sui due gradi e mezzo o tre gradi e lì davvero sono guai perché se superi i tre-quattro gradi nella seconda metà del secolo davvero diventa molto difficile vivere in molte parti del mondo e questo significa spostamenti di popolazioni. E come facciamo a gestirlo da un punto di vista geopolitico? Questa è, ancora una volta, la grande questione di fondo. Cioè, voglio dire, la Siberia diventerà coltivabile, auguri, buona fortuna alla Russia che ha la Siberia, ma tutta l’Africa subsahariana diventa un deserto. Cosa facciamo? Prendiamo i popoli e li spostiamo da una parte all’altra? Tutto questo non è possibile, sta qui il punto sociale della questione. Le piante, gli animali soffriranno tantissimo, se ne estingueranno tante, però la vita è sopravvissuta in passato e se la caverà benissimo, siamo noi che rischiamo di pagare tantissimo dal punto di vista economico e sociale.
Non mi piacciono quei movimenti ambientalisti radicali che dicono “Ah, faremmo bene a estinguerci, l’uomo è il cancro del pianeta. Facciamola finita”. Tutto sommato, penso che l’ecologismo di cui abbiamo bisogno adesso sia l’ecologismo umanista, non anti-umano. Dobbiamo capire che gli interessi della natura coincidono con quelli umani e tutto sommato noi, se abbiamo dei figli, se vogliamo andare avanti con le generazioni, abbiamo il diritto di difendere i nostri interessi, così come ogni specie li difende. Il problema è che li stiamo difendendo in modo tale da pregiudicare il nostro stesso futuro. Noi non è che ci estingueremo: i nostri antenati sono sopravvissuti a catastrofi ben peggiori di quella che sta succedendo adesso e lì non era colpa nostra, erano catastrofi che accadevano naturalmente. Il problema stavolta è il costo, ovvero chi pagherà questa transazione, su chi scaricheremo il costo? Purtroppo, quello che ci dicono i modelli, è che lo scaricheremo in primo luogo su chi verrà dopo di noi, che non ha nessuna responsabilità per quello che è successo, e poi su quei Paesi della fascia equatoriale tropicale che non hanno contribuito, se non per lo 0-1%, alle emissioni globali. Si tratta di un’enorme questione di ingiustizia e diseguaglianza.
E poi, se vogliamo vederla in modo pragmatico, è anche una questione di sicurezza. Se andiamo a vedere per esempio i documenti del Pentagono, l’Agenzia per la sicurezza nazionale, quali sono le principali minacce alla sicurezza degli Stati Uniti? Va bene, il terrorismo internazionale. Poi però c’è sempre il “climate change”. Perché? Perché il “climate change”, pesando sui Paesi più instabili, genera conflitti per le risorse, instabilità, migranti ambientali, destabilizza il mondo in modo tale che anche gli Stati Uniti sanno di essere in pericolo. Lo sanno benissimo che tutto ciò non conviene neanche dal punto di vista della sicurezza dei più ricchi, mettiamola così.
La speranza è che dopo questa traversata del deserto, che non sappiamo quanto durerà, se ne esca nel modo giusto, cioè si esca, non rinviando, ma facendo quello che dovremmo fare
In generale, quello che sappiamo è che a medio termine le cose si mettono male perché da questa tempesta perfetta è molto difficile uscire. Guerra, aumento dei prezzi, risorse che diminuiscono. Ci vuole tempo per la transizione ecologica, quindi secondo me ora abbiamo davanti una traversata del deserto molto rischiosa. La speranza è che dopo questa traversata del deserto, che non sappiamo quanto durerà, se ne esca nel modo giusto, cioè si esca, non rinviando, ma facendo quello che dovremmo fare: una transizione ecologica molto più veloce, ricordandoci (ed è quella secondo me la grande difficoltà) che, come l’ha spiegato “Nature” in un bellissimo editoriale che è uscito qualche mese fa, questa soluzione prevede ricette “glamour” e “non glamour”. Le ricette glamour saranno quelle che piacciono al mainstream, quindi l’innovazione tecnologica, gli investimenti in innovazioni, che sono giustissimi. Poi però c’è la parte “non glamour”: smettere di sprecare, ridurre i consumi, redistribuire le ricchezze. Ecco, questa parte ci piacerà molto di meno, ma dovremmo farla digerire a qualcuno.
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