Negli ultimi mesi le istituzioni europee, fra le quali prevale orami nettamente il ruolo intergovernativo del Consiglio rispetto alla Commissione, hanno completato il quadro delle regole sulla finanza pubblica e la politica economica per gli stati membri. Si è definita nei dettagli una cornice di vincoli, basati sul principio che la solidità dei bilanci pubblici sia il più importante obiettivo da raggiungere, anche se questo obbliga i paesi in difficoltà a politiche restrittive in un periodo di perdurante recessione. Persino il Fondo Monetario ha criticato l’eccesso di austerità a cui sono vincolati i paesi europei; molti economisti, fra cui recentemente Paul De Grauwe, stanno convincentemente argomentando come questo approccio di politica economica stia rendendo la crisi economica più lunga e profonda invece di contribuire a risolverla. Mancano, nel quadro europeo, quei meccanismi che possano consentire ai paesi in difficoltà di riprendere un percorso di crescita, e si sta creando una grave frattura fra il Nord e il Sud dell’Europa: su questi temi mi permetto di rimandare a un mio saggio in uscita sul “Mulino”.
La discussione in Italia su queste fondamentali questioni è bizzarra. Da un lato si diffonde una protesta cieca contro tutto quello che è europeo, e cresce la sfiducia verso l’Unione e le istituzioni comunitarie, come documentato da ultimo da una recentissima rilevazione demoscopica curata da Ilvo Diamanti. Dall’altro si tende ad assumere il quadro delle regole europee come un dato immutabile di cui tenere conto; per alcuni è ancora un positivo vincolo esterno che ci obbliga al risanamento dei conti pubblici (dimenticando magari che il saldo primario di bilancio di quest’anno sarà migliore in Italia rispetto alla Germania). Con tranquillità si sono ratificati gli accordi, inserendo anche in Costituzione un assai discutibile vincolo al pareggio di bilancio, su cui sarebbe stata utile una più approfondita discussione. Quel che manca è l’attenzione verso le concrete possibilità di inserire flessibilità e ragionevolezza nelle regole europee. Ma c'è qualche spiraglio. In particolare i Consigli europei del giugno 2012 e del marzo 2013 hanno affermato la possibilità di “bilanciare le necessità di investimenti pubblici produttivi con gli obiettivi della disciplina fiscale”; hanno cioè aperto alla possibilità di non conteggiare nei limiti imposti al deficit pubblici (il famoso 3%) alcune spese infrastrutturali. Il 3 luglio il presidente della Commissione Barroso ha annunciato che si sarebbe lavorato per questo già sui bilanci del 2014; i servizi della Commissione sono all’opera. Ma non mancano forti pressioni per rendere questo principio irrilevante nella sostanza, inserendo una pluralità di vincoli alla sua attuazione. Il principio può applicarsi solo ai paesi nel braccio preventivo del Patto di stabilità, può riguardare solo il cofinanziamento nazionale delle politiche di spesa collegate alle grandi reti europee e ai fondi strutturali, per scarti rispetto agli obiettivi di bilancio di medio termine che vanno poi recuperati. Ma questo non sembra bastare: e si stanno inserendo ulteriori vincoli. Anche per questo, il Parlamento europeo martedì 8 ottobre ha approvato una risoluzione che sostiene la necessità di ampliare, e non ridurre, questi spazi di manovra. Approvazione che è avvenuta con una maggioranza ampia e assolutamente non scontata alla vigilia (433 contro 131).
Il dibattito, a Bruxelles, è acceso; le scadenze ravvicinatissime, gli interessi in gioco notevoli, specie per l’Italia. Ma l’Italia dorme. Dorme la stampa, che non si è accorta della questione; dorme la politica. Roma dorme, e Bruxelles, sotto dettatura di Berlino, decide. E poi protestiamo?
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