“Mi è stato raccontato che, in un rifugio nelle Alpi Carniche, alle insistenti richieste di una coppia che chiedeva un tavolo separato dagli altri avventori, il gestore abbia mormorato a denti stretti qualcosa in friulano e sia poi tornato fuori con in mano una motosega, tranciando sotto gli occhi terrorizzati della coppia e degli altri avventori il tavolo in due” [N. De Cilia]
Quando càpita di mettere le mani in una scatola che contiene fotografie di famiglia ci si riappropria di un passato che ci appartiene. Eppure può succedere di sfogliare quelle immagini sentendosi quasi degli intrusi, soprattutto se le foto vanno molto indietro nel tempo e ritraggono pezzi di storia famigliare che non abbiamo mai conosciuto di persona. Quello delle stampe fuoriuscite dagli album è da anni un vero e proprio genere dei mercatini dell’antiquariato, dove sono esposte alla rinfusa e possono essere acquistate per pochi spiccioli. Appropriandosene nella loro materialità, così lontana dalla digitalizzazione ossessiva cui siamo ormai quasi tutti succubi, però, si entra nella vita privata di altri individui, a noi sconosciuti, nella maggioranza dei casi non più a questo mondo. Fotografie anonime, di cui non si conosce l’autore, che al massimo recano sul retro una data, il nome di chi vi è ritratto, una località. Foto quasi sempre scattate senza alcuna ambizione artistica, salvo rare eccezioni, ma che in ogni caso costituiscono pezzi significativi di memoria storica.
La fotografia vernacolare è un patrimonio straordinario, forse non sufficientemente valutato, proprio per la mano dilettantesca che sta dietro agli scatti e l’uso del tutto privato che li origina. Un patrimonio che rischierebbe di scomparire se non fosse per l’opera di alcuni appassionati, professionisti e centri di ricerca.
Un ottimo esempio del valore di questo genere di immagini e della loro forza memoriale è rappresentato dall’archivio Fotografico di Comunità di Peio avviato come progetto nel 2020 nel territorio della piccola valle alpina del Trentino, laterale della Val di Sole. Il progetto coinvolge sette frazioni di Peio che tutti assieme contano meno di duemila abitanti. Ideatrice dell'archivio (sfogliabile virtualmente grazie a un sito web dedicato) è Claudia Marini, fotografa professionista originaria della valle. Il progetto è arrivato a coinvolgere un centinaio di famiglie per un totale di oltre seimila immagini. Un lavoro in divenire, che trova però un suo primo approdo in un libro in uscita domani: Alpecedario. Memorie fotografiche di una comunità di montagna (Postcart Edizioni, 2023, 288 pp.).
Non si tratta di una semplice selezioni delle immagini presenti nell’archivio. L’intento infatti è di mettere insieme una sorta di abbecedario, dunque non solo un libro per adulti ma anche adatto ai bambini e al loro sguardo. Per questo le fotografie sono intervallate da brevi racconti, ispirati a ricordi che, come scrive la curatrice (responsabile di iniziative nelle scuole attente alla dimensione analogica della fotografia), “mi hanno raccontato le persone che hanno partecipato al progetto. Nel trascriverli ho voluto renderli più fiabeschi in modo da dare a queste piccole storie un carattere più universale e quindi più riferibile alla vita di montagna in generale”.Se le fotografie sparse sui banchi dei mercatini sono fotografie anonime, queste sono tutte riconducibili alle famiglie della valle, che hanno raccolto l’invito a partecipare al progetto; dunque è possibile ricollocarle in una storia meno indefinita. Grazie al volume – il cui esempio potrebbe essere seguito da tante altre comunità, non solo di montagna – non è difficile cogliere la forza che le immagini così presentate possono avere nel riattivare la memoria collettiva dei luoghi. Tuttavia, il fatto che nel caso in questione si tratti di una comunità di alta montagna consente una lettura particolare, che si interseca con l’evoluzione che le terre alte hanno avuto nel corso del secondo Novecento. “Terre dei vinti” abbandonate da coloro che le abitavano, attratti dalla sicurezza di un salario che non dipendesse più dalle stagioni e dai capricci della natura, con l’esodo verso le fabbriche della nuova industria. Poi riabitate per pochi giorni all’anno come luoghi di vacanza. Infine, trasformate a immagine e somiglianza del turismo di montagna, in particolare d’inverno, nella convinzione che un nuovo ciclo economico potesse riattivare anche le comunità che un tempo tenevano in vita le valli. Come ha raccontato bene Nicola De Cilia (Una montagna di gente, in Critica del turismo, a cura di Alex Giuzio, Ed. Grifo, 2023), l’impatto del turismo nelle località alpine è stato fortissimo, cambiando in profondità il senso stesso dell’andare in alto alla ricerca di uno spazio in netto contrasto con la quotidianità urbana. Il prima e il dopo si colgono in tutta la loro netta differenza proprio attraverso le immagini e le parole di questo Alpecedario.L’imprevedibilità, il rischio calcolato, la preparazione necessaria proporzionata all’impegno, il pranzo al sacco al posto del ristorante stellato (un esempio è il ristorante Michelin sul Col Margherita, in val di Fassa, a 2.550 metri raggiungibili in inverno tramite funivia, “un nuovo ski bar griffato”), l’attrezzatura sufficiente al passatempo del dilettante, ora sostituita dallo scarpone tecnico di alta gamma, magari rigido e fastidiosissimo, ma alla moda (si visiti in un pomeriggio d’agosto lo store de La Sportiva in val di Fiemme). E, naturalmente, il cambiamento climatico, che in montagna sarebbe bene chiamare sempre con il suo nome, che è surriscaldamento. Foto di ghiacciai e di seracchi, di macchine sommerse da mezzo metro di neve, di pomeriggi estivi a temperature di montagna che impongono di non lasciare mai a casa “il golfino” e la “giacca-a-vento” ci mettono di fronte a tutto questo. C’è la convivialità, la condivisone, lo stare insieme anche con chi si incontra un po’ per caso. Tutto il contrario del bisogno di starsene appartati, schifando lo spirito stesso del rifugio o della baita alpina.
C’è molto di più di una comunità, insomma, in un Alpecedario. Ci sono i profondi mutamenti che ci hanno segnati nel nostro rapporto con la montagna e con gli spazi della natura. Anche per questo motivo è da apprezzare che l’impegno di alcuni e la disponibilità di intere famiglie abbia portato a un libro come questo, della cui materialità, nelle sue quasi 300 pagine in una stampa ben curata, nessuno può dubitare.
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