L’impasse spagnola. Oltrepassati i cento giorni dalle elezioni del 20 dicembre, la Spagna non ha ancora un governo. Non dovesse averlo entro il 2 maggio, il re dovrà sciogliere le Cortes e indire nuove elezioni.
Una ricognizione sull’inedita e complessa situazione spagnola richiede tre passaggi: la conoscenza delle regole del gioco, un richiamo al risultato delle ultime elezioni e l’aggiornamento su quanto è accaduto dopo.
Per quanto riguarda le regole, la Costituzione spagnola, al fine di garantire la governabilità, prevede che solo nella prima votazione il candidato a presiedere il governo debba ottenere la maggioranza assoluta dei voti, mentre stabilisce che nella seconda, da svolgersi entro 48 ore dalla prima, sia sufficiente un numero di voti favorevoli superiore a quella dei contrari. Di qui l’importanza delle astensioni.
Venendo al secondo passaggio, occorre ricordare che il voto del 20 dicembre scorso ha visto due sconfitti e due vincitori, tutti e quattro impossibilitati a governare in solitudine, per la distanza a cui si sono fermati dalla soglia della maggioranza assoluta (176 seggi). Pesantemente sconfitti sono stati i due partiti che si erano alternati alla guida del paese dal 1982, socialisti (Psoe) e popolari (Pp), crollando i primi al minimo storico (22,01%) e perdendo oltre 3,5 milioni di voti i secondi. Di contro straordinario è stato il successo di Podemos e Ciudadanos (C’s), passati dal nulla a 65 e 40 seggi rispettivamente. Ad essi si aggiungono i seggi dei partiti minori o con presenza territoriale circoscritta come i partiti nazionalisti catalani, baschi, galiziani e delle Canarie, che pur complessivamente scesi dai 54 seggi del 2011 ai 37 attuali, potrebbero avere un ruolo determinante. Comunque lo si valuti, un risultato che ha messo fine al sistema dei partiti in vigore dal 1982.
Quanto è successo dopo è da considerare sotto un duplice profilo: quello delle trattative per il voto di fiducia e quello delle dinamiche che voto e trattative hanno innescato nelle quattro principali forze politiche.
Facendo leva sul condiviso rifiuto del referendum di autodeterminazione voluto dagli indipendentisti catalani, il Pp, senza avanzare una proposta formale, ha dato per scontato un governo di coalizione con socialisti e C’s. I quali hanno immediatamente respinto l’idea. Presone atto, Rajoy non ha potuto far altro che declinare l’incarico che il re era intenzionato a offrirgli in quanto leader del partito più votato. Così la palla è passata al segretario socialista Pedro Sánchez, che dopo aver superato – ricorrendo a una consultazione della base – l’opposizione di importanti settori del suo partito favorevoli alla «grande coalizione» proposta da Rajoy, ha siglato un accordo con C’s e si è presentato davanti ai deputati, senza ottenere però l’investitura neppure nella seconda votazione, il 4 marzo, per l’indisponibilità di Podemos. Il quale, da parte sua, aveva fin dall’inizio posto la pregiudiziale del sostegno al referendum catalano e proposto un governo di coalizione con la partecipazione diretta di tutte le forze di sinistra e l’astensione delle forze indipendentiste.
Accanto alle pregiudiziali, i veti: quello del Pp e di C’s contro Podemos, bollato come forza antisistema; quello di C’s contro Rajoy, accusato di aver coperto gli scandali che hanno colpito il Pp; quello di Podemos contro C’s, giudicato come un movimento neoliberista finanziato dagli industriali; quello di una parte rilevante dei cosiddetti «baroni» del Psoe (leader storici e potenti capi territoriali) contro Podemos, per il timore che siglando un accordo con il partito di Pablo Iglesias i socialisti si sbilancerebbero a sinistra perdendo i voti moderati.
Non meno degno di nota è ciò che è accaduto all’interno delle varie forze politiche nei mesi intercorsi dal voto. Facile dire del Pp, dove non è successo assolutamente nulla. Respinta la sua idea di coalizione, Rajoy non ne ha avanzate altre. La sua leadership nel partito non traballa, anche perché il possibile candidato alternativo, Alberto Núñez Feijoo ha deciso di ricandidarsi per un terzo mandato alla presidenza della Xunta di Galizia. Ma non è chi non veda l’isolamento a cui ha portato la «mineralizzazione» (la definizione è del giornalista Eric Juliana), cioè l’immobilismo, del Pp. Del tutto diversi i problemi per il Psoe dov’era ed è in corso una lotta per la leadership che solo un successo elettorale avrebbe potuto placare e che non essendosi prodotto ha rilanciato la candidatura della presidentessa dell’Andalusia, Susana Díaz. E dove Pedro Sánchez ha dovuto far fronte, come si è visto, all’ostilità di alcuni «baroni», favorevoli al governo di coalizione proposto da Rajoy. Vista la situazione, il congresso del partito, previsto per maggio, è stato rinviato. Problemi di varia natura hanno investito anche Podemos. Anzitutto per la difficoltà a far convivere le varie coalizioni con cui si è presentato in Catalogna (En Comú Podem), Galizia (En Marea) e nella Comunità valenziana (Compromís-Podem-Es el moment). Poi per l’improvvisa rimozione da parte di Iglesias del responsabile dell’organizzazione, vicino al numero due di Podemos, Iñigo Errejón, con il quale i rapporti paiono tesi. A star meglio di tutti pare C’s, che non vive travagli interni e può far valere il patto con il Psoe.
Domenica 5 aprile El País ha pubblicato un sondaggio di Metroscopia secondo il quale il 76% degli spagnoli ritiene inevitabili nuove elezioni, anche se il 64% vorrebbe evitarle con il varo di un governo di coalizione. La stessa fonte indica che qualora si tornasse al voto, eccezion fatta per C’s, arretrerebbero tutte le forze politiche, Podemos addirittura di 5 punti. Ne uscirebbe, insomma, un quadro che con qualche aggiustamento riproporrebbe lo stallo odierno. Allora perché perdere altro tempo? Di qui la spinta verso una soluzione in extremis. Salvo repentini e improbabili colpi di scena, escluso che Rajoy possa guidare un nuovo governo, la partita è a tre. C’s vorrebbe l’astensione di Podemos per un governo a due con il Psoe. Podemos l’astensione di C’s per un governo alla valenziana, cioè delle sinistre. Il Psoe pare orientato a insistere su un governo a tre. I prossimi giorni saranno decisivi.
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