Le convulse vicende della politica francese succedutesi alle elezioni europee hanno fatto sorgere il sospetto che Emmanuel Macron, come tanti enfant prodige, abbia perso il tocco magico e abbia piuttosto attivato una spirale di difficile gestione.

La sua ascesa folgorante e fortuita alle presidenziali del 2017, dovuta a un improvviso accendersi di furore anti-partitico sulla base di uno scandalo, peraltro minore, che coinvolse e azzoppò il candidato dei post-gollisti, François Fillon, sembrava destinata a sconvolgere il panorama politico-partitico francese. In effetti, le legislative del 2017, successive alla vittoria a mani basse di Macron contro la candidata di estrema destra, Marine Le Pen, nella competizione presidenziale, avevano praticamente azzerato il Partito socialista, formazione dominate della precedente legislatura, e ridotto sensibilmente i post-gollisti dei Les Républicains. Era stato il neonato partito fondato da Macron, La République en Marche, poi ridenominato Renaissance, a guadagnare la maggioranza assoluta, attraendo voti tanto da destra quanto da sinistra.

Questo assetto è stato modificato dal ciclo elettorale avviato cinque anni dopo e appena concluso. Alle presidenziali del 2022 Macron vince di nuovo contro Marine Le Pen ma con uno scarto molto inferiore, e il nuovo Parlamento eletto subito dopo vede l’ingresso di una nutrita compagine del Front National (ribattezzato Rassemblement National) – da 8 a 89 deputati – e la perdita della maggioranza assoluta da parte del partito del presidente e dei suoi alleati. Questa situazione – non del tutto inedita per la verità, poiché anche nel 1988 i socialisti dovettero affidarsi ad appoggi contrattati in Parlamento – ha creato non poche difficoltà al governo di Elisabeth Borne e poi alla breve esperienza di Gabriel Attal. Contrattazioni estenuanti in Parlamento per trovare un accordo, utilizzo ripetuto dell’articolo 49 (che cassa la discussione parlamentare e fa passare senza votazione il testo del governo), effervescenza sociale, crollo della fiducia nel presidente, nel governo e anche nelle istituzioni (come attestato dai sondaggi periodici del Cevipof).

Contrattazioni estenuanti in Parlamento per trovare un accordo, utilizzo ripetuto dell’articolo 49, effervescenza sociale, crollo della fiducia nel presidente, nel governo e nelle istituzioni

Le elezioni europee di quest’anno hanno confermato lo scarso apprezzamento della maggioranza, innalzando il RN di Marine Le Pen al 31,4% dei voti contro il 14,6% della lista macroniana – incalzata peraltro dal 13,8% della lista socialista guidata dall’"esterno" Raphael Glucksmann, animatore del movimento riformatore Place Publique. Un tale risultato non sorprendeva in quanto preannunciato dai sondaggi della vigilia. Ciò che invece è calato come un fulmine a ciel sereno è stata la decisione del presidente Macron, neanche mezz’ora dopo la chiusura delle urne, di sciogliere il Parlamento. Tra lo sconcerto generale, con rinnovato impeto jupitérien, facendo calare le cose dall’alto come Giove, il presidente francese dà così vita a un dramma – che i maligni potrebbero derubricare in pochade – in tre atti.

Primo atto: l’azzardo. Come accuratamente descritto su questa rivista da Michele Marchi, la dissoluzione dell’Assemblea legislativa ha messo in tensione le istituzioni della V Repubblica. In particolare due aspetti vanno sottolineati, uno istituzionale e uno politico. Sul primo versante è andato sotto stress il circuito Parlamento-governo-presidenza; sul secondo è stata offerta (inconsapevolmente?) una carta vincente al Rassemblement National. Mentre Macron richiedeva un voto “di chiarimento”, che rimettesse le lancette dell’orologio al 2017 e gli riconsegnasse una solida maggioranza contro il pericolo Le Pen, in realtà rischiava di consegnare al RN le chiavi del governo. Macron non aveva tenuto conto della decisione, anch’essa calata d’improvviso, del presidente Jacques Chirac, il quale nel 1997 sciolse il Parlamento pur disponendo di una confortevole maggioranza: con il risultato di avere una maggioranza di segno contrario e dover accettare la coabitazione con il governo del socialista Lionel Jospin. Tra l’altro, che alle europee il partito lepenista avesse ottenuto un buon risultato e che la lista macroniana avesse raccolto appena la metà dei voti del RN non poteva inquietare più di tanto perché, da sempre, in Francia questo tipo di consultazione ha offerto risultati del tutto peculiari e che non si sono rispecchiati nelle elezioni legislative. Per ben tre volte il partito al potere era stato sconfitto in quelle consultazioni non per nulla definite di secondo ordine, e nessuno aveva battuto ciglio. Invece Macron opta per un immediato chiarimento delle volontà dei francesi messi di fronte al consueto, ma ben più sottotono, "o me o il caos", e li invita, ancora una volta, a sbarrare la strada all’estrema destra. Tuttavia, come gli studi elettorali indicano, se due elezioni nazionali vengono tenute in sequenza rapida, allora è assai probabile che il successo, o il tonfo, di un partito nella prima si ripresenti in quella successiva. Ed è ciò che accade al primo turno delle legislative. Il RN e il suo alleato (un piccolo gruppo scissionista dei Républicains) superano i 10 milioni di voti, equivalenti al 33,3%, al primo turno. E la coalizione presidenziale, Ensemble, arriva addirittura terza. Un esito che sembrava spalancare la strada a un governo di estrema destra, sganciando così una bomba atomica sulla politica non solo francese ma di tutto il continente, tale che ne avrebbe radicalmente cambiato il profilo politico.

Secondo atto: dal chiarimento alla mobilitazione anti-Le Pen. Di fronte all’eventualità di un trionfo, e di un governo, dell’estrema destra, risuona di nuovo l’appello per una difesa repubblicana. La sinistra composta da comunisti, verdi, socialisti e "insoumis" (i massimalisti de La France Insoumise di Jean-Luc Melechon), raccolta sotto le insegne del Nouveau Front Populaire (NFP), proclama immediatamente la disciplina repubblicana per impedire la vittoria del RN: ritira tutti i suoi candidati arrivati in terza posizione al primo turno (ad eccezione di 5 circoscrizioni) e invita a votare anche post-gollisti e macroniani pur di sbarrare la strada a Le Pen. Anche nel centrodestra i Républicains e il partito presidenziale adottano questa linea, ma con minore rigore; anzi. In quest’area molti considerano La France Insoumise (LFI), uno dei partiti dell’alleanza di sinistra, non votabile e addirittura assimilabile al RN. Lo slogan adottato dallo schieramento di centrodestra – né con il RN né con la LFI – fa presagire una scarsa tenuta del fronte repubblicano. Invece i risultati elettorali riservano una grande sorpresa. Non solo il fronte ha tenuto riducendo la rappresentanza del Rn a 126 deputati su 577 – una simulazione fatta sui dati delle europee gliene assegnava 266 – ma il rigore repubblicano della sinistra l’ha premiata al punto da risultare il primo partito in termini di seggi e il secondo in termini di voti popolari dopo il RN. La coalizione macroniana, e in particolare il partito del presidente, ridenominato Ensemble, sono i grandi perdenti. Riducono la loro rappresentanza complessiva da 250 a 166 deputati, mentre i Républicains, grazie alla desistenza dei candidati di sinistra, “salvano i mobili”, come direbbero i francesi, con 48 seggi. Ne risulta un Parlamento diviso in tre componenti grosso modo delle stesse dimensioni e non assimilabili – NFP, Renaissance e RN. Il chiarimento invocato da Macron si è risolto nel suo contrario. Una impasse mai vista prima.

Terzo atto: la calma olimpica prima del diluvio. La divine surprise del primato parlamentare del NFP probabilmente disturba il presidente più di quanto avrebbe fatto la vittoria netta del FN. Almeno così avrebbe nominato subito un capo del governo di quel partito e si sarebbe instaurata una coabitazione, certo problematica, per usare un eufemismo, in vista del successivo round elettorale delle presidenziali del 2027. Con l’intenzione, nemmeno tanto nascosta, di logorare i lepenisti e minarne il consenso popolare una volta trovatisi, del tutto impreparati, a gestire il Paese.

Ma la composizione del Parlamento è tale da rendere la formazione di un nuovo governo un'equazione di molte e difficilmente controllabili variabili. Macron adotta un strategia da temporeggiatore, del tutto inconsueta rispetto alla suo stile jupitérien, di far calare dall’alto e improvvisamente le sue scelte (come nel caso dello scioglimento dell’Assemblea). Sospende ogni decisione lasciando il governo dimissionario in carica per gli affari correnti per un tempo lunghissimo, nonostante le molte perplessità tra i costituzionalisti, invocando la tregua olimpica (en passant, forse l’unico successo degli ultimi anni); e lancia la palla nel campo dei partiti dichiarando, tra la sorpresa generale, di attendere le loro deliberazioni in merito. Per la prima volta nella V Repubblica un presidente si pone alla mercé delle scelte dei partiti, peraltro da Macron tanto disprezzati. Quindi, in pieno stile parlamentare, il presidente riceve le delegazioni dei partiti che offrono le loro rispettive soluzioni. I primi ad arrivare all’Eliseo sono i vincitori, i dirigenti della NFP. Ma vi arrivano estenuati da infiniti litigi sulla figura del candidato Primo ministro. Alla fine, dopo una ecatombe di proposte, esce dal cappello una figura estranea alla scena pubblica, la responsabile finanziaria del comune di Parigi, la socialista Lucie Castets. Una scelta che risponde alla domanda di cambiamento e rinnovamento che emerge dalla società francese, ma allo stesso tempo una figura priva di esperienza politica ad alto livello. La competenza tecnica, e anche un tratto personale gradevole e dialogante, non controbilanciano la fragilità politica. Ed è qui che il sistema si inceppa. Il presidente reagisce irritato da questa proposta: prima, al momento dell’annuncio della candidatura, arrivata durante una trasmissione televisiva, con evidente fastidio; poi con una sorta di esame a Castets (così narrano le cronache), in occasione dell’incontro ufficiale all’Eliseo della coalizione del NFP. Per il presidente comunque non ci sono dubbi che Castets non sia all’altezza della situazione. E che, soprattutto, non sia in grado di tenere a bada i massimalisti di Mélenchon, tetragoni nel rivendicare l’attuazione integrale del programma dell’alleanza (forgiato su molte delle loro posizioni) senza cedere a compromessi. Nemmeno l’annuncio che LFI non chiederà posti al governo smuove la situazione. Peraltro, il rigetto di questo partito nell’opinione pubblica è fortissimo, simile a quello che riceve RN: per circa i due terzi dei cittadini entrambi i partiti sono un pericolo per la democrazia. Così, tra irrigidimenti della sinistra, inesperienza della candidata e irritazione del presidente, l’ipotesi di un governo di sinistra viene buttato alle ortiche. Non averlo messo alla prova dell’Assemblea suscita ulteriori critiche tra i costituzionalisti, e persino da parte del sempre prudente ex-presidente François Hollande: una volta che il presidente della Repubblica, privo di una sua maggioranza, convoca i partiti affinché trovino un accordo parlamentare non può arrogarsi il diritto di respingere il candidato del gruppo di maggioranza, per quanto destinato al fallimento. Così facendo Macron confonde i ruoli tra presidenza e governo e priva il Parlamento della sua potestà di confermare o respingere un esecutivo. Il successivo ballon d’essai presidenziale – la ventilata nomina di un altro candidato di provenienza socialista ma non più iscritto al partito, l’ex Primo ministro Bernard Cazeneuve – risponde più a giochi politici che alla prospettiva di varare un governo: puntava a piazzare una mina sotto l’alleanza di sinistra per farla esplodere. Ma nemmeno François Hollande, che aveva nominato Cazeneuve a Matignon, da politico navigato ed esperto in trabocchetti qual è, sostiene questa manovra. Così, alla fine, benché abbiano votato disciplinatamente anche i più indigeribili candidati del centrodestra (come l’ex ministro degli Interni Gérald Darmanin), gli elettori di sinistra vengono rimandati in un angolo, tra gli indesiderabili. Invece, alla fine, gli sconfitti del voto – macroniani e post-gollisti – si ritrovano al governo.

Il cordone sanitario contro l’estrema destra invocato da Macron si è spezzato. Il vero azionista di maggioranza del governo Barnier risponde a Marine Le Pen

Epilogo: la nemesi di un Giove malconcio. L’equazione post-elettorale ha infine trovato una soluzione con la nomina di una personalità sperimentata come il post-gollista Michel Barnier a guida di un governo di centrodestra. Ma l’equazione ha ancora molte variabili irrisolte. Innanzitutto un governo composto dai partiti più sconfessati dall’elettorato innesca un cortocircuito tra opinione pubblica e istituzioni. Come è noto, la Francia protesta, è il suo marchio di fabbrica. L’esautorazione d’ufficio, senza un vaglio parlamentare, della coalizione arrivata in testa sfregia l’idea di rappresentanza (come peraltro anche la sottodimensione dell’estrema destra, come accadeva nell’Italia della Guerra fredda con il Partito comunista). Il varo di un governo così spostato a destra tuttavia riflette gli orientamenti complessivi dell’elettorato, se è vero che destra e centrodestra raccolgono una ampia maggioranza di consensi tra i cittadini. Però è altrettanto vero che i due terzi degli elettori hanno manifestato nelle urne un rigetto per l’estrema destra. Si sono turati il naso, come si dice in questi casi, pur di votare qualcuno che rifiutasse l’abbraccio con il RN. E invece questo governo dipende dalla benevolenza che gli riserverà Marine Le Pen. Mentre la sinistra ha annunciato la presentazione di una mozione di censura, il RN preferisce attendere di vedere quanto l’equipe di Michel Barnier soddisferà i suoi desiderata. Il cordone sanitario contro l’estrema destra invocato da Macron in occasione delle sue elezioni presidenziali e rinverdito nel secondo turno delle ultime legislative si è spezzato. Il vero azionista di maggioranza del governo Barnier risponde a Marine Le Pen. Il fallimento dell’ipotesi tecnocratica, modernizzatrice e riformatrice di Macron apre scenari nuovi nella politica francese. Quello più probabile – ma nulla è scritto – è di una ulteriore polarizzazione politica, con scoppi di mobilitazione sociale a bassa o alta intensità.