È probabile che il ministro dell’Interno non si aspettasse una simile levata di scudi quando ha annunziato il suo piano di aprire un Centro di identificazione ed espulsione (Cie) in ogni regione, a supporto delle linee di indirizzo sulle attività di rimpatrio degli stranieri irregolarmente presenti in Italia tracciate dal Capo della polizia Franco Gabrielli. Queste ultime invitano a conferire «massimo impulso alle attività di rintraccio dei cittadini di Paesi terzi in posizione irregolare», ma, se si esclude il riferimento alla necessità di coordinare a livello centrale l’assegnazione ai Cie degli irregolari in via di espulsione, nulla si dice sull’eventuale potenziamento della rete di strutture detentive.
Anche per tale motivo, il ministro si è affrettato a precisare che il suo piano sarebbe stato presentato in dettaglio dapprima in Conferenza Stato-Regioni e, successivamente, in Parlamento. Quel che si sentiva di anticipare il ministro era che i Cie che aveva in mente sarebbero state strutture di tipo diverso: «Non avranno nulla a che fare con quelli del passato. Punto. Non c’entrano nulla perché hanno un’altra finalità, non c’entrano con l'accoglienza ma con coloro che devono essere espulsi».
Al netto di una certa confusione tra strutture di accoglienza per richiedenti asilo e strutture per irregolari in via di espulsione, una cosa su cui tutti, ministro compreso, sembrano d’accordo è che i Cie non abbiano sino ad oggi ottenuto risultati esaltanti.
Aperti nel 1998, all’indomani dell’ingresso dell’Italia nello spazio Schengen, con la denominazione di Centri di permanenza temporanea (Cpt), i Cie sono giunti ad avere un massimo di 1.900 posti letto distribuiti in 13 differenti strutture detentive sparse su tutto il territorio italiano, alcune delle quali (Roma, Torino, Bari, Gradisca d’Isonzo) ospitavano più di 200 «trattenuti» contemporaneamente. Delle pessime condizioni detentive molti hanno scritto, mentre una parte della teoria giuridica e sociale italiana ha in questi anni sottolineato con forza l’inconciliabilità con i più elementari principi dello Stato di diritto di una forma di detenzione praticata per via amministrativa, per ragioni esclusivamente legate all’amministrazione della politica migratoria. Naturalmente non è qui possibile sintetizzare il vasto dibattito che, anche a livello mondiale, è stato condotto sulla legittimità di simili strutture detentive. Basti ricordare che lo scandalo giuridico di una detenzione senza reato è stato accomodato dalla giurisprudenza delle «corti supreme» nazionali e internazionali sostenendo che la privazione della libertà personale si giustifica in questi casi solo nella misura in cui essa appaia strettamente necessaria alla effettiva esecuzione del provvedimento di espulsione.
È tuttavia proprio a partire da tale criterio di efficienza che strutture come i Cie hanno prestato il fianco a maggiori critiche. Per restare al caso italiano, la percentuale di persone trattenute in un Cie che sono state effettivamente allontanate è sempre rimasta al di sotto del 50%, mentre si è dimostrato come anche l’allungamento fino a diciotto mesi del periodo massimo di detenzione non avesse portato a significativi miglioramenti. Che l’efficacia della politica di rimpatrio degli stranieri irregolari non passi dalla possibilità di fare ricorso alla detenzione, bensì dalla qualità delle relazioni diplomatiche con i Paesi di provenienza, era ormai chiaro anche al ministero dell’Interno nel 2013, quando aveva avviato un complessivo ripensamento dei Cie. In un documento programmatico che oggi sembra dimenticato, si denunziavano infatti tali inefficienze, sottolineando anche la difficoltà di gestione di un sistema detentivo in cui danneggiamenti, rivolte e violenze erano all’ordine del giorno. Si era all’epoca all’inizio di una stagione che avrebbe visto il numero di Cie operativi diminuire drasticamente, con una riduzione dei posti letto disponibili fino a 450 circa. Stagione che sarebbe culminata in un ciclo di lotte e proteste coronato con la riduzione fino a tre mesi del periodo massimo di detenzione, approvata infine nel 2014.
Se dunque veniamo da tre anni di sostanziale disinvestimento politico nel sistema dei Cie, occorre chiedersi perché il ministro Minniti torni oggi a proporre la riapertura di strutture detentive di questo tipo. Una prima e più immediata risposta guarda all’Unione europea ed è stata peraltro ventilata nella medesima circolare di Gabrielli. Come già nel 1998, anche oggi l’Ue chiede all’Italia di imperniare la sua politica di rimpatrio degli irregolari su strutture di tipo detentivo e lo fa in maniera chiara e reiterata nei documenti di accompagnamento della cosiddetta Agenda europea sulle migrazioni. In questo senso, se non proprio a rendere più efficace la politica di rimpatrio, i Cie serviranno negli auspici della Ue a limitare le possibilità di movimento verso il Nord Europa dei migranti indesiderabili. Una seconda risposta è se possibile ancora più preoccupante. Nel dibattito di questi ultimi giorni affiorava infatti l’idea che i Cie fossero utili a contenere il coefficiente di pericolosità che taluni migranti rappresentano, siano essi coinvolti in fenomeni di criminalità comune o, addirittura, potenziali terroristi. La tentazione di utilizzare i poteri sulle libertà personali concessi dal diritto dell’immigrazione come surrogato delle politiche criminali è purtroppo una costante dei periodi più bui della storia, quando le minoranze sono maggiormente esposte al rischio di persecuzioni. Non vorremmo che anche nell’Italia di oggi si affermasse l’idea che è possibile una lotta al crimine o al terrorismo a «basso costo» di risorse investigative, semplicemente sbattendo i sospetti in un Cie. Come ha ribadito Luigi Manconi sul «manifesto», un simile approccio, oltre a non migliorare le politiche migratorie, corre il rischio di indebolire l’efficacia delle politiche di sicurezza.
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