In occasione delle elezioni politiche del 4 marzo, oltre 46 milioni di elettori italiani sono stati chiamati alle urne per rinnovare la composizione di Camera e Senato e dare così avvio alla XVIII legislatura della storia repubblicana. Come era stato ampiamente previsto, il dato generale dell’affluenza è risultato in diminuzione rispetto a quello del 2013 (75,2%), attestandosi al 72,9%. Si tratta del risultato più basso della storia repubblicana per una elezione di primo ordine, a conferma di una tendenza negativa – per le elezioni politiche – che perdura dal 2006.

Tuttavia, se si confronta il dato del 2018 con quello delle altre elezioni che si sono susseguite negli ultimi anni, non possiamo certo parlare di crollo, anzi. Gli elettori continuano a fare una grande differenza e a considerare il voto per il rinnovo del Parlamento più importante e decisivo di quello nelle altre elezioni in cui, al contrario, l’assenteismo tende a essere sempre più di massa: a conferma di ciò, si ricordi come alle europee del 2014 la quota di votanti è stata inferiore al 60% (58,7%), mentre alle regionali del 2015 addirittura vicina al 50% (52,0%). In entrambi i casi, il confronto con i dati di cinque anni prima evidenziava un vero e proprio crollo di circa dieci punti percentuali, e dunque pressoché quadruplo rispetto alla diminuzione che si è avuta tra le politiche del 2013 e quelle del 2018.

Questa tendenza non deve in alcun modo sorprendere, non essendo certo una peculiarità italiana: anche in altri grandi Paesi europei la partecipazione al voto nelle ultime elezioni politiche ha sostanzialmente tenuto, mentre la diminuzione c’è stata ed è stata forte nelle sole elezioni di secondo ordine.

Come è possibile interpretare tali importanti dinamiche? Per farlo, occorre prima di tutto spiegare perché il risultato – per quanto in calo rispetto a cinque anni fa – debba essere letto più in termini di sostanziale stabilità che all’interno di un percorso di continua e preoccupante diminuzione, e la chiave di lettura – da questo punto di vista – va trovata nei forti disincentivi al voto che parevano all’opera in occasione delle elezioni politiche 2018.

Prima di tutto, il clima di opinione fortemente negativo nei confronti della maggioranza di governo, indicata da tutti i sondaggi pre-voto come in grande difficoltà, poteva fungere da detonatore per una smobilitazione selettiva dell’elettorato di centrosinistra. Con elevata probabilità, questo movimento si è in effetti manifestato, soprattutto nelle aree di tradizionale insediamento del partito, ma in termini piuttosto contenuti. In secondo luogo, non soltanto gli elettori di centrosinistra sono stati disincentivati dalle previsioni pre-elettorali: l’attesa di un risultato non definitivo e di un conseguente Parlamento “bloccato”, ripresa da più parti, poteva dare l’impressione anche all’elettorato di centrodestra o cinquestelle che il recarsi alle urne sarebbe stato sostanzialmente inutile per il destino del Paese. Infine, anche l’impossibilità di esprime un voto disgiunto tra candidati e liste, così come l’assenza di voto di preferenza, potevano rappresentare ulteriori fattori di smobilitazione, soprattutto nel Sud del Paese, dove queste pratiche erano maggiormente diffuse.

A fronte di tutto ciò, che circa il 73% degli italiani abbia comunque deciso di recarsi alle urne ed esprimere il proprio voto – preferendo contestare la maggioranza di governo uscente invece che mostrando apatia e ulteriore distanziamento dalla politica – va dunque interpretato positivamente, e pare connesso a una serie di fattori. Innanzitutto, gli ultimi anni hanno visto alcune trasformazioni nell’assetto del sistema partitico italiano che, unite agli effetti della nuova legge elettorale, hanno determinato una più ampia composizione (e differenziazione) dell’offerta politica: non soltanto gli elettori si sono trovati sulla scheda elettorale tanto liste che esplicitamente si rifacevano alla storia comunista, quanto Forza Nuova e Casapound Italia; la combinazione di voto proporzionale e voto maggioritario ha anche dato a molti elettori la possibilità di esprimere voti “in dissenso”, per formazioni agli estremi dello spettro politico (fuori e dentro le coalizioni) o auto-proclamatesi anti-sistema e di protesta, senza per questo porsi al di fuori della competizione per il governo del Paese.

È questo, ad esempio, il caso della Lega, che ha rappresentato sia l’espressione di un voto di forte rottura rispetto allo status quo, sia un voto utile ai fini della formazione del futuro governo, grazie alla sua inclusione all’interno della coalizione di centrodestra.

Ancora più importante del ruolo giocato dal partito di Salvini nei confronti della partecipazione elettorale pare tuttavia essere stato quello del Movimento 5 Stelle. I micro-scandali e le défaillances amministrative dell’ultimo periodo non hanno inciso in alcun modo sulla capacità di questa forza politica di monopolizzare il “nuovo” e la spinta anti-sistema, soprattutto nel Mezzogiorno. Al contrario, la brillante campagna elettorale condotta dai cinquestelle pare aver giocato un ruolo importante nella mobilitazione dell’elettorato meridionale, scontento per l’operato del governo e, più in generale, per le condizioni di disagio sociale e difficoltà economiche che attanagliano le regioni del Sud Italia. In più, a spingere i cittadini delusi di questa parte del Paese a votare, e a farlo premiando il M5S, non è stata solo una motivazione di protesta, ma anche la percezione della possibilità di riattivare (nuovi) canali di mediazione a livello centrale, a fronte di un indebolimento delle garanzie fornite dal Pd, dell’appannamento del ruolo di Forza Italia e dei rischi per il Sud di un centrodestra a trazione leghista.

Attenzione, però, a definire il M5S come il “partito del Sud” e a sposare integralmente la sola lettura socio-economica del voto ai cinquestelle (e, a ciò connesso, della relazione tra voto al M5S e astensione). Alcuni dati pubblicati immediatamente dopo il voto dimostrano infatti come il partito del “capo politico” Luigi Di Maio sia il primo tra i lavoratori dipendenti, tra quelli autonomi, tra gli studenti, tra i disoccupati e tra le casalinghe: tutti tranne i pensionati. Il primo partito in tutte le fasce generazionali, tranne tra gli over 65. Il primo partito tra tutte le fasce d'istruzione (laureati e diplomati) tranne tra chi ha fatto solo la scuola dell'obbligo. Si tratta, insomma, di una forza politica fortemente interclassista e con un elettorato estremamente variegato, ma accomunato da alcuni punti molto chiari, che hanno probabilmente funzionato da detonatori di mobilitazione differenziata tra Meridione e Settentrione: al Sud, il bisogno di protezione, reddito, occupazione; al Nord, la necessità di abbassare le tasse e, soprattutto, di incidere pesantemente sui costi della politica. La dinamica è più netta nel Mezzogiorno, dove la partecipazione elettorale nel 2018 è pressoché sovrapponibile con quella del 2013 (66,5% invece che 67,1%), ma pare essersi verificata anche al Nord.

Nel complesso, sembra dunque che il M5S abbia rappresentato un forte argine all’astensione, incanalando buona parte di quel voto di protesta che – in assenza – avrebbe potuto tramutarsi in disaffezione pura. Tuttavia, non di sola protesta si tratta: siamo infatti di fronte ad una forza politica che è stata in grado di mobilitare elettorati molto differenti in aree del Paese tra loro molto diverse. Che questo sia il primo passo per ricostruire un legame più forte tra elettorato, sistema partitico e istituzioni, o un semplice fuoco di paglia, è tuttavia troppo presto per dirlo.

 

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