La separazione dei luoghi di lavoro dai luoghi di vita domestica viene definita e descritta come una delle caratteristiche principali del processo di industrializzazione e di modernizzazione del modello capitalistico. Questa rigida distinzione tra luoghi ha a sua volta prodotto una separazione tra tutto ciò che ha a che vedere con intimità, affettività e cura, che viene circoscritto all’ambito domestico, e i comportamenti formali e freddi della vita professionale, il comportamento distaccato e controllato della sfera pubblica. Due ambiti nettamente e rigidamente separati che hanno contraddistinto l’organizzazione della vita quotidiana, del lavoro e del consumo in epoca fordista: tempi rigidi in luoghi altri da quelli domestici, fortemente disciplinati e strutturati, dove si mantiene una netta divisione tra ruoli e compiti.
Oggi in una situazione di profondo cambiamento e di flessibilizzazione non solo del mercato del lavoro, ma anche dei tempi e dei luoghi, di precarizzazione e diffusione di gig e sharing economy, e con il proliferare di tecnologie che consentono di lavorare da una molteplicità di luoghi differenti, si è indebolita la rigida distinzione tra luoghi di lavoro, di socialità e di vita. Possiamo lavorare da casa, azionare macchinari e strumenti vari da remoto, disporre di tutta la documentazione e i dati necessari sul cloud, senza più bisogno di archivi fisici, possiamo mescolare attività e tempi di vita quotidiana e professionale. Rispondiamo alle mail o lavoriamo dopo cena, il sabato o la domenica. Tutto diventa più flessibile e meno separato, spesso sembra meno vincolante, sembra fornire maggior autonomia e libertà , anche se studi recenti mettono in luce come tutto questo allunghi decisamente il tempo di lavoro del singolo e raramente i margini di libertà e di discrezionalità individuali.
Nell’ultimo decennio nuove forme di organizzazione dello spazio lavorativo sono emerse e si sono diffuse parallelamente al nascere di nuove esigenze da parte di molte delle professioni create dalla rivoluzione digitale e dalla trasformazione che la digitalizzazione ha causato in molte delle professioni tradizionali. Questi nuovi spazi costituiscono una risposta a un bisogno di servizi e strutture troppo costose per essere utilizzate individualmente e che vengono quindi condivise con altri professionisti. Mi riferisco agli spazi di coworking che hanno conosciuto una forte espansione negli ultimi anni in quelle aree metropolitane occidentali dove è presente l’economia creativa, e che sono un esempio di come stiano cambiando i significati del lavoro e della vita quotidiana nell’era del cosiddetto capitalismo digitale.
Gli spazi di coworking nascono nel primo decennio del nuovo millennio, in contesti metropolitani, primo tra tutti San Francisco, caratterizzati dallo sviluppo di professioni creative tipiche dell’economia digitale (web designer, designer, blogger, fashion designer ecc.). Gli utilizzatori di questi spazi, intervistati in varie ricerche, ne mettono in luce le potenzialità di collaborazione, di apertura, di sostenibilità e di creazione di uno spirito comunitario come principali vantaggi, sostenendo che il valore aggiunto di questi luoghi risieda nel generare e produrre ricchezza di relazioni sociali, nel networking, nel farsi conoscere e conoscere altri professionisti acquisendo così maggior visibilità e reputazione professionale.
Chi oggi studia le nuove organizzazioni dello spazio di lavoro descrive il venir meno di confini tra casa e ufficio e l’emergere di una socialità quasi obbligatoria che si esprime nelle relazioni con chi condivide lo spazio. Questi spazi sembrano supplire alla mancanza di socialità, tipica delle nuove forme di lavoro spesso estremamente individualizzate, dove salta una rigida distinzione tra tempo di lavoro e tempo di vita, dove dimensione privata e pubblica si mescolano, e vengono a costituire una embrionale forma di comunità, una seppur minimale rete di relazioni e di supporto in un contesto caratterizzato dalla precarietà delle carriere e dalla instabilità delle relazioni personali.
Il coworking è un modello organizzativo che prevede l’affitto di postazioni di lavoro, di sale riunioni, di stampanti, di wifi, di servizi segretariali, di spazi di produzione artigianale, su base generalmente mensile, ma può anche essere più breve, e che consente quindi di condividere una serie di servizi e spese tra una molteplicità di attori. Persone che svolgono differenti professioni, soprattutto quelle della cosiddetta economia creativa, si trovano a condividere spazi e a creare una rete di conoscenze e di relazioni che spesso producono utili sinergie e opportunità di lavoro, riducendo i costi delle intermediazioni. L’abbattimento dei costi, la flessibilità, e l’opportunità di poter condividere servizi dai costi insostenibili per un singolo imprenditore o professionista, hanno costituito il grande successo di questi spazi nel periodo della crisi e della ristrutturazione economica recente. Questi spazi offrono infrastrutture non solo utili strettamente alla professione ma anche alla creazione di reti sociali e di interazioni. Inoltre alcune offrono anche spazi per la cura dei bambini, corsi di ginnastica, meditazione, mentori, utilizzo di software e hardware che costituiscono un plus di notevole importanza per i singoli professionisti. In un certo senso costituiscono e offrono forme di Welfare dal basso utili per chi non è inserito nel mercato del lavoro tradizionale e non conosce quindi le garanzie connesse a esso. Condividendo spazi, servizi, competenze e conoscenze i membri condividono anche, e riducono, i rischi che emergono da queste nuove professioni non standard, non garantite, non stabili. Evitano la solitudine del lavorare a casa isolati e creano forme di solidarietà embrionali e fragili ma pur tuttavia importanti per i singoli. Anche se spesso lavorano in settori simili, i professionisti non sembrano soffrire la competizione tra loro ma valutano molto positivamente l’aspetto di socialità che caratterizza questi luoghi. Anzi, per molti l’opportunità di essere in contatto con professionisti che lavorano in campi affini costituisce un elemento positivo di scambio di conoscenze, relazioni, opportunità.
Il successo e la diffusione di questi spazi nelle creative cities può essere letto come una ricerca di senso comunitario, di solidarietà e di contrasto all’incertezza e precarietà che contraddistinguono le vite di molti professionisti occupati nelle nuove professioni legate all’industria creativa, all’economia digitale e ai processi di outsourcing che hanno caratterizzato e caratterizzano l’economia dei Paesi occidentali negli ultimi decenni.
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