L’ascia del Cancelliere sul welfare britannico. Le conseguenze del meltdown finanziario stanno cominciando a farsi sentire anche in Paesi come la Gran Bretagna, dove le ondate speculative che negli ultimi mesi hanno colpito Grecia e Irlanda ancora non hanno prodotto conseguenze significative. D’altronde le elezioni politiche del maggio 2010 si erano giocate proprio sul come gestire il dopo crisi, come affrontare il deficit governativo che era schizzato alle stelle. Per i conservatori le politiche di austerità rappresentavano l’unica soluzione per ripristinare la market confidence, mentre per i liberaldemocratici, membri anche loro del governo di coalizione, il riordino dei conti pubblici sarebbe dovuto avvenire in maniera più graduale.
La linea del ministro del Tesoro Osborne sembra però aver prevalso, e il Regno Unito ha intrapreso una serie di politiche economiche dal durissimo impatto sociale. La VAT (la nostra IVA), inizialmente abbassata per favorire i consumi, è stata prima riportata al suo valore iniziale e sarà poi alzata a metà 2011 – una misura fortemente regressiva perché colpisce in maniera disproporzionata le famiglie a reddito più basso, ossia quelle che utilizzano la parte maggiore del proprio reddito in consumo. Il settore pubblico verrà fortemente colpito con il blocco salariale e la pianificata diminuzione di ben 200.000 lavoratori che, nelle speranze del cancelliere, dovrebbero essere assorbiti dal settore privato. Una speranza che purtroppo non si fonda su alcun dato concreto, come conferma la maggioranza degli economisti e come evidenziato da quella che finora è una (timida) jobless recovery. Il deficit, per quanto elevato, non sembra peraltro essere tale da richiedere interventi draconiani, che rischiano piuttosto di minare la crescita. Anzi, in fasi d’incertezza economica, l’intervento pubblico può stimolare la ripresa economica, che renderebbe la dinamica del debito sostenibile nel medio periodo.
Il programma di Cameron e Osborne sembra in realtà un manifesto ideologico in cui la crescita è affidata totalmente alle virtù taumaturgiche del mercato, dimenticando che è stato un fallimento di mercato e non certo dello Stato a scatenare la crisi finanziaria del 2007 e che i conti dello Stato sono al momento deficitari proprio per il gigantesco bail out bancario degli ultimi anni.
In questo contesto la riforma universitaria sembra il punto più discutibile e quello che ha provocato maggiori proteste, almeno per il momento. I finanziamenti pubblici sono stati tagliati del 40%, mentre le tasse universitarie sono state raddoppiate e in alcuni casi triplicate fino a 9.000 pound annui. I giovani che entreranno all’università non dovranno pagare le quote immediatamente, ma potranno ripagare l’ammontare (tra le 40 e le 50.000 sterline alla fine del percorso universitario) nel momento in cui saranno assunti con un salario di almeno 20 mila sterline l’anno – non certo un salario da benestanti. Molti studenti saranno disincentivati dall’iscriversi all’università non avendo vere aspettative di salari alti nel futuro (ricordiamo che il Regno Unito ha la mobilità sociale più bassa d’Europa insieme all’Italia), mentre altri preferiranno emigrare negli Stati Uniti, sfruttando anche il cambio favorevole. Allo stesso tempo anche moltissimi studenti europei, che in questi anni hanno affollato le università inglesi, saranno costretti a rinunciare a studiare oltremanica. In ogni caso ci sarà una perdita secca in termini di qualità degli studenti. Le università migliori riusciranno comunque ad attirare studenti (e quindi denaro) contando sul loro nome e prestigio, mentre le altre rischiano seriamente di chiudere o di venire fortemente ridimensionate. Inoltre, tale riforma sembra dare nuova linfa all’economia del debito, causa principale del collasso finanziario. Le proteste degli studenti sono state durissime, represse peraltro con pugno di ferro dal governo. Il rischio è che le nuove misure di austerity, quando entreranno in vigore, causino ulteriori discontenti e proteste generalizzate.
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